Politica

Ladri, sabotatori, disonesti: ecco i reintegri più assurdi

Le storture dell'articolo 18: riassunzione per chi ruba in fabbrica o gonfia la nota spese

Ladri, sabotatori, disonesti: ecco i reintegri più assurdi

L ancia un mazzo di chiavi contro il padrone: licenziato. Dopo essere stato già colto a rubare in fabbrica, fa scattare un'altra volta il metal detector e rifiuta di farsi perquisire: riassunto. Accusa la amministratrice delegata di prendere certe decisioni «perché ha le mestruazioni»: licenziato. Ruba sulla nota spese della trasferta: riassunto. Manda un comunicato sindacale usando la mailing list aziendale: licenziato. Dà dell'ignorante all'amministratore delegato: riassunto. Colpisce con le tette la caporeparto, dileggiandola perché è piatta: licenziata. E così via, in una altalena di sentenze a dir poco imprevedibile, dove la certezza del diritto diventa un terno al lotto. E tutto in nome dell'articolo 18, il famoso articolo dello Statuto dei lavoratori su cui Matteo Renzi ha deciso di giocarsi una bella fetta della sua immagine di riformatore vero o presunto.

Il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto di essere riassunto, dice in sostanza l'articolo. Ma chi decide dove sta l'asticella del «giustamente»? Il tribunale, la Corte d'appello, la Cassazione? La riforma Fornero del 2012 doveva velocizzare e razionalizzare i processi, ma non tutti sono d'accordo che i risultati siano stati raggiunti. «Quattro fasi processuali (o forse cinque, se la Cassazione annulla la sentenza della Corte d'Appello con rinvio), per sapere se il licenziamento è legittimo o illegittimo, sono troppe», ha scritto il giuslavorista Stefano Trifirò. I tempi stretti imposti dalla legge Fornero, quaranta giorni per la prima decisione, d'altronde valgono solo in qualche parte d'Italia: a Milano in meno di due mesi arriva la sentenza, a Palermo capita di dover aspettare quasi un anno.

Ma la lotteria vera, oltre che sui tempi, è sulla decisione. È qui che l'incertezza si fa quasi totale. È finita l'epoca in cui i tribunali (e le preture, fin quando sono esistite) partivano quasi sempre dalla parte del lavoratore. Negli ultimi anni si sono rarefatte anche le sentenze decisamente clamorose, come quelle che ordinarono il reintegro di uno dei facchini di Malpensa scoperti a svuotare i bagagli dei passeggeri, o del bigliettaio che sui vaporetti di Venezia si intascava il resto destinato ai turisti. E anche la sentenza più eclatante di questi anni, il reintegro nella fabbrica Fiat di Melfi dei tre sindacalisti della Fiom licenziati con l'accusa di sabotaggio, è sembrata figlia più di scelte politiche che di svarioni giuridici.

Ma per capire l'oggetto del contendere, più dei casi limite serve guardare alla quotidianità, quella delle aule delle sezioni lavoro dei tribunali dove ogni giorno l'articolo 18 viene invocato per ottenere il reintegro. Un testa o croce, anche nelle statistiche: degli 824 ricorsi presentati dall'inizio dell'anno al 30 giugno, il tribunale di Milano ne ha respinti il 55 per cento e accolti il 45. Sono storie di gente licenziata «per motivi economici», che già oggi ha grande difficoltà a ottenere il reintegro (serve dimostrare la «manifesta infondatezza»), e che la riforma di Renzi costringerà definitivamente ad accontentarsi del risarcimento; ma anche di lavoratori espulsi per motivi disciplinari, per i quali l'ordine del giorno del Pd sembra lasciare qualche chance di vedersi restituito il posto di lavoro.

Ed è proprio su questo filone dei licenziamenti disciplinari che l'alea nei fatti regna sovrana, e la riforma Renzi non sembra destinata a dissiparla. Oggi l'incertezza è tale che, come racconta chi nelle aule delle «sezioni lavoro» ci lavora quotidianamente, gran parte delle vertenze si chiude con una transazione; pochi e maledetti ma subito e sicuri, i soldi hanno di fatto già preso il posto del rientro in fabbrica. D'altronde come fidarsi dell'articolo 18? Ci hanno provato insieme, due lavoratori, licenziati entrambi per avere danneggiato l'immagine delle rispettive aziende: uno denunciandola in Procura per un appalto sui semafori, l'altra per avere raccontato in giro che stava per spostare uno stabilimento. La Cassazione, sezione Lavoro, ha esaminato le loro cause a poche settimane di distanza, a gennaio e a marzo dell'anno scorso.

E poi, chissà perché, ha preso decisioni opposte: reintegrato il primo, a spasso la seconda, senza neanche il risarcimento del danno.

Commenti