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Landini, quel gran lavoratore che non lavora da trent'anni

Il segretario della Fiom, astro nascente della sinistra radicale, si vanta di avere fatto l'apprendista a 15 anni. Ma non dice che dagli anni '80 fa il sindacalista a tempo pieno

Landini, quel gran lavoratore che non lavora da trent'anni

No, nessun Partito del Lavoro, giura il nuovo astro Maurizio Landini. Innanzitutto perché non c'è un partito da fondare: «Non mi va di discutere di queste cavolate». E poi perché, almeno da un po' di tempo, non c'è nemmeno un lavoro.

Sempre in piazza e mai in fabbrica, sempre al tavolo delle trattative e mai al chiodo: la regola aurea dei sindacalista non sbaglia mai, però stavolta per il segretario della Fiom fa una piccola eccezione. «Ho cominciato a quindici anni a fare l'apprendista saldatore. Eravamo un gruppo di ragazzi giovani in una cooperativa di Reggio Emilia. Dovevamo lavorare all'aperto, faceva freddo d'inverno e c'era un disagio».

Landini ha cominciato presto ma presto ha pure finito, visto che a metà degli anni ottanta era già nel sindacato e che nel 1991 era segretario degli operai metallurgici di Reggio Emilia. Insomma, sono trent'anni che la fabbrica la frequenta dal di fuori, come del resto tempo fa gli ha ricordato a brutto muso Sergio Chiamparino, all'epoca sindaco di Torino. Landini lo aveva invitato, insieme a Piero Fassino, ad andare alle catene di montaggio se voleva conoscere davvero i risvolti dell'intesa con la Fiat su Mirafiori. E Chiamparino: «Cadute di stile demagogiche e populistiche. Noto che certe critiche vengono da alcuni esponenti della Fiom, e in certi casi vengono da persone a cui si può rispondere l 'as mai cercà la busca , non ha mai strappato l'erba, né alla catena di montaggio né altrove. Io almeno qualche anno di lavoro normale l'ho fatto, anche se da laureato, però c'è qualcuno che di lavoro normale non ha mai fatto un'ora».

In realtà non è proprio così, gli esordi di Landini sono stati duri. Classe 1961, quattro fratelli, figlio di un cantoniere che aveva fatto la Resistenza e di una casalinga, dopo le scuole medie si iscrisse a un istituto per geometri, ma fu costretto ad abbandonare la scuola dopo due anni per contribuire alle magre entrate familiari. A quindici anni entrò in un'azienda metalmeccanica in qualità di apprendista saldatore.

Lavorava, racconta, all'aperto. «Era una cooperativa rossa, eravamo tutti iscritti al Partito Comunista e i dirigenti ci dissero che sì, avevamo ragione, però dovevamo tenere conto che la cooperativa aveva dei problemi e che dovevamo fare degli sforzi». Già all'epoca Landini, come adesso con la Cgil della Camusso, faticava a sopportare le rigide regole del partito. «Io ero giovane e d'istinto mi venne di interromperlo e di dirgli: “Guarda, tu sei un dirigente, e io in tasca ho stessa la tessera che hai anche tu. Però ho freddo lo stesso”. Lì ho capito una cosa: il sindacato deve rappresentare le condizioni di chi lavora e non deve guardare in faccia nessuno».

A metà degli anni ottanta diventò delegato sindacale della Fiom e venne convinto a impegnarsi a tempo pieno all'interno della struttura sindacale. Da lì iniziò l'itinerario che lo avrebbe portato venticinque anni dopo a raggiungere il vertice dell'organizzazione. Ha trattato vertenze difficili, Electrolux, Indesit, Piaggio, ha scritto libri nel 2010 ha conquistato la segreteria dei metalmeccanici, ha sfidato la Camusso, Ha pure flirtato con Renzi, con il quale adesso sembra entrato il rotta di collisione, anche se qualcuno pensa che si tratti di un gioco della parti. E ha litigato con Alfano, usando paradossalmente il solito argomento: «Abolire l'articolo 18 come chiede il ministro dell'Interno? E' una sciocchezza colossale. Forse, non avendo mai lavorato in vita sua, non capisce».

E ora lo vorrebbero alla testa di un partito alla sinistra della sinistra. I sondaggi sono buoni, i possibili compagni di strada, Stumpo, Fassina, Vendola, Zoggia, un po' meno. Così lui si defila. Altri lo rivorrebbero il pista per scalzare la Camusso. Landini nega deciso: «Io mio mandato alla Fiom scade tra tre anni e vorrei completarlo». Però, mai dire mai: «La nostra è una battaglia sindacale, che certo ha anche un significato politico, perché stiamo proponendo un modello sociale differente».

Insomma, dopo aver diversamente lavorato per trent'anni, non vuole andarsene in pensione.

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