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L'eterno antidemocratico che odia votare e dà ordini come se fosse ancora al Colle

Dal "golpe" 2011 che portò Monti al veto di elezioni a Bersani, tutti i «no»

L'eterno antidemocratico che odia votare e dà ordini come se fosse ancora al Colle

Roma - «Nei paesi civili alle elezioni si va a scadenza naturale e a noi manca ancora un anno». Il blitz del leader Pd Matteo Renzi, che ha imposto l'accelerazione dell'esame parlamentare sulla legge elettorale, non è piaciuto al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Che annusando aria di elezioni anticipate si mette subito a capo del nutrito partito della continuità e detta l'altolà: «Per togliere le fiducia ad un governo deve accadere qualcosa. Non si fa certo per il calcolo tattico di qualcuno». Applausi di tutti coloro che temono l'interruzione anzitempo della legislatura, attacchi feroci da Lega, Cinque Stelle e FdI, silenzio gelido di Matteo Renzi. Il quale però deve mandare i suoi a difendere l'ex capo dello Stato da Salvini, che come di consueto c'è andato giù pesante: «Nei paesi civili chi tradisce il proprio popolo viene processato», accusa.

Sarà pure ex, Napolitano, ma non rinuncia a muoversi esattamente come quando era ancora inquilino del Quirinale. E, per i paradossi della politica, oggi trova al suo fianco (contro Renzi e la sua spinta verso il voto) proprio alcuni di coloro che furono nel recente passato vittime del presidenzialismo napoletaniano: da Forza Italia (con molta cautela) a Bersani. Nel 2011, con la caduta del governo Berlusconi sotto i colpi dello spread, e la nascita del gabinetto Monti, Forza Italia parlò di «golpe», partito «dal nostro interno» con la scissione di Fini ma avallato fuori confine nella Ue (indimenticabile il siparietto Merkel-Sarkozy), e che trovò soluzione nella sapiente regia del Colle, che pilotò il paese verso il governo «tecnico»: «Nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l'imbroglio degli spread ha ricordato il Cavaliere - Napolitano riceveva Monti e Passera per scegliere i ministri di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico». In quella legislatura fu Berlusconi, che dopo la rottura nella sua maggioranza nel 2010 pensava al ritorno alle urne, a trovarsi davanti al niet di Napolitano che, via intervista all'Unità, fece sapere che non se ne parlava. Ma anche Bersani, che oggi plaude dicendo che «Napolitano ha ragione», venne a più riprese spietatamente messo all'angolo dal presidente, che secondo quanto confidavano dal Colle non aveva gran fiducia nelle sue doti di statista. Prima costrinse l'allora segretario Pd ad ingollare nel 2011 il governo Monti anziché andare al voto dopo la caduta di Berlusconi, come Bersani avrebbe voluto. Lo stesso nel 2012, quando Bersani avrebbe voluto sganciarsi dal governo tecnico e andare al voto sull'onda del successo Pd alle amministrative, ma fu spinto alla rinuncia: «Non voglio vincere sulle macerie del paese», sospirò obtorto collo. Il clou si toccò nel 2013, quando a scadenza naturale - Bersani non vinse e Napolitano, dopo avergli rifiutato un incarico pieno ed aver assistito scettico ai suoi approcci coi grillini, gli rifiutò il rinvio alle Camere nelle quali il segretario Pd sperava di trovare i numeri per una maggioranza raccogliticcia.

Finì con la rielezione di Napolitano al Colle, dopo la trombatura di Marini e Prodi, e con il governo Letta, mentre la Corte Costituzionale provvedeva a bocciare il Porcellum rendendo impossibile un ritorno alle urne.

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