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L'exit strategy di SuperMario

Tra petizioni, appelli internazionali e lacrime di coccodrillo, il sentiero che conduce l'Italia alla fatidica audizione in aula del premier dimissionario è sempre più stretto

L'exit strategy di SuperMario

Tra petizioni, appelli internazionali e lacrime di coccodrillo, il sentiero che conduce l'Italia alla fatidica audizione in aula del premier dimissionario è sempre più stretto e reso quasi impraticabile dall'apparente irremovibilità di Draghi verso qualsivoglia ripensamento. Una questione di coerenza e di ragion politica, ha precisato superMario, opposta e incompatibile rispetto alla manifesta irresponsabilità di chi ha provocato la crisi più assurda della storia repubblicana. Eppure, a fronte di cotanta irresponsabilità da una parte, e del coro di appelli che piovono da ogni scranno dell'Occidente dall'altra, viene in mente una celebre frase di Martin Luther King: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla». Il gran rifiuto del premier a riconsiderare le proprie dimissioni, pur corroborato da infinite ragioni di carattere etico e politico, è talmente tetragono da apparire quasi sospetto alla luce di una serie di fattori che un economista della sua statura non può non aver considerato.

Il primo è che Draghi non è un politico di professione ma un premier anomalo, il cui incarico conferitogli dal Quirinale 15 mesi orsono rispondeva a un momento di grave emergenza, per durare «il tempo necessario a superare la drammatica crisi sanitaria, sociale ed economica». Una crisi che, per altro, rispetto al febbraio 2021, si è ulteriormente aggravata a causa della guerra, della crisi energetica e dell'inflazione galoppante. Fu Draghi stesso a sottolineare che, a fine legislatura, un lavoro era perfettamente in grado «di trovarselo da solo». Alla scadenza naturale di quell'impegno assunto mancherebbero non più di otto mesi, costellati da decreti e riforme fondamentali il cui varo è pressoché scontato, come dimostra il caso dello stesso decreto Aiuti, approvato agevolmente malgrado il voltafaccia di un manipolo di sanculotti. I numeri per proseguire il nobile compito di salvare il Paese c'erano prima e ci sono oggi, tanto più per gestire, come nessuno meglio di lui saprebbe fare, i preziosissimi fondi del Pnrr. Né le gazzarre di bassa politica, di cui il nostro Parlamento è maestro, potrebbero minimamente scalfire la credibilità e l'immagine internazionale dell'ex presidente della Bce, specie oggi che ha assunto in Europa un ruolo di leadership pari solo a quello che aveva Angela Merkel.

E allora: perché impuntarsi su una questione che pare più di principio che di sostanza, ora che anche metà dei grillini, più per paura del suicidio collettivo che per ragion di Stato, sarebbero pronti a riconfermargli la fiducia? Perché farsi logorare da un potere «a tempo» a cui ha più volte dichiarato di non essere attaccato? Viene quasi il dubbio che Draghi possa aver colto il casus belli per concentrarsi sul suddetto futuro «nuovo lavoro» che, sfumato il Quirinale, sarà certamente di alto prestigio internazionale e non necessariamente politico; uno tra tutti, più volte ipotizzato, il segretariato generale della Nato in prossima scadenza.

Ipotesi e valutazioni più che lecite, anzi sacrosante, per un uomo libero della sua caratura, ma che in questo momento stridono un po' nel generale richiamo al senso di responsabilità verso il nostro sciagurato Paese.

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