Politica

L'Fmi gela Frau Merkel: «Deutsche Bank è una mina»

Il Fondo: «L'istituto tedesco è la maggior fonte di rischi per tutti». E c'è il nodo Fed. Intanto S&P taglia il rating della Ue

Rodolfo Parietti

Il nein al cambio delle regole bancarie opposto da Angela Merkel a Matteo Renzi suona un po' come il napoletano «facite ammuina». Fate confusione. Così da distrarre l'attenzione dai problemi dell'intossicato sistema del credito tedesco. Un bel tentativo, davvero. Peccato che ieri, da Washington, siano arrivati due telegrammi, indigesti tipo i crauti a colazione, a ricordarci come sono messi quelli che vogliono impartire lezioni a tutti. Il primo, inviato dalla Federal Reserve, così recita: «Vostra filiale americana Deutsche Bank non ha superato stress test. Stop». L'altro, firmato dal Fondo monetario internazionale, è anche peggio: «Deutsche Bank è la maggior fonte di rischi sistemici al mondo». Che, tradotto, significa: il colosso di Francoforte, già tristemente famoso per i magheggi truffaldini sui tassi Libor (interbancario) Euribor (mutui) e Tibor (operazioni commerciali), è una bomba a orologeria in grado di far saltare in aria tutto. Altro che il crac delle nostre quattro banchette costato un sanguinoso bail in ai risparmiatori: questa rischia di essere una Lehman Brothers all'ennesima potenza, una minaccia alle fondamenta del capitalismo, se non sarà trovata una soluzione all'esposizione lorda in derivati, una cifra attorno ai 55mila miliardi di dollari che equivale a 15 volte la ricchezza nazionale tedesca. A complicare ulteriormente la situazione, ieri sera l'agenzia di rating Standard&Poor's ha tagliato la pagella dell'Unione Europea come conseguenza della Brexit: il rating passa da AA+ a AA. L'outlook però è stabile.

Tornado invece al problema tedesco, l'Fmi rileva che Berlino ha un altro punto di debolezza preoccupante: la fortissima interconnessione tra banche e compagnie di assicurazione. «I legami maggiori sono quelli tra Allianz, Hannover Re, Munich Re, Deutsche Bank, Commerzbank e Aareal Bank, con la compagnia Allianz che rappresenta i rischi sistemici maggiori tra i finanziari quotati in Borsa», scrive il Fondo guidato da Christine Lagarde. In pratica, se frana uno, cadono tutti. È quindi necessaria, su Deutsche Bank, «un'intensa supervisione sulla gestione del rischio» e «un monitoraggio sull'esposizione transfrontaliera». Insomma: la Germania «ha bisogno di studiare se i suoi piani di risoluzione delle banche sono applicabili».

Non è la prima volta che l'Fmi accende un faro sul sistema finanziario tedesco. Non più tardi di tre mesi fa, a finire nel mirino era stata la scarsa redditività delle banche, soprattutto delle casse di risparmio, proprio quelle sempre così sollecite ad aprire il fuoco di sbarramento contro le misure prese dal presidente della Bce, Mario Draghi. A cominciare da quella che ha portato i tassi sottozero, considerati la pallottola ammazza-utili. In realtà, l'erosione dei margini sembra derivare dagli alti costi, dalle inefficienze strutturali e dal legame pericoloso che le Sparkasse hanno sempre avuto con la politica. Va d'altra parte ricordato che la divisione belga di DB offre rendimenti del 5% sui depositi vincolati, adombrando il sospetto di avere qualche problemuccio di liquidità. Poi la colpa è di Draghi, delle «sue azioni disperate», come ebbe a dire proprio la banca all'inizio del mese, e non di chi ha dovuto mettersi nelle mani di un inglese, John Cryan, per uscire dai disastri combinati e culminati con la perdita di 6,8 miliardi dello scorso anno, frutto anche del vizietto di manipolare tassi e cambi.

Il nuovo ad ha imposto una cura da lacrime e sangue, con la cancellazione di dieci Paesi in cui l'istituto aveva sempre operato e il taglio di 26mila posti di lavoro, ma adesso deve sopportare la tegola arrivata dalla Fed.

Il mancato superamento degli stress test, la seconda bocciatura rimediata dopo quella del 2015, impedirà alla filiale americana di distribuire dividendi alla casa-madre e di lanciare un programma di riacquisto di azioni proprie, in genere utilizzato dalle società per gonfiare i titoli azionari, con l'abbassamento delle azioni in circolazione, e sostenere in questo modo la pratica dei ricchi bonus elargiti ai manager.

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