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La Libia, Erdogan e i tagliagole L'Italia è a rischio

L'Isis è ancora vivo e la Turchia potrebbe usarlo per ricattarci

La Libia, Erdogan e i tagliagole L'Italia è a rischio

Ieri novanta e passa morti in un attacco suicida in Somalia. Il giorno prima undici cristiani decapitati in Nigeria dai miliziani di Boko Haram affiliati all'Isis. Il tutto mentre in Afghanistan continua il quotidiano stillicidio di attentati e massacri talebani. Insomma se dopo la riconquista di Raqqa e Mosul e l'uccisione del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi ci illudevamo di aver sconfitto la minaccia jihadista i fatti ci stanno smentendo. É già successo. Nel 2011, dopo l'eliminazione di Osama Bin Laden, siamo caduti preda della stessa illusione. E abbiamo considerato le Primavere Arabe pagate dal Qatar e guidate dalla Fratellanza Musulmana un moto di libertà. Quell'illusione ha alimentato la tragedia della Siria dove Stati Uniti ed Europa hanno puntato sui ribelli jihadisti transitati poi sotto le bandiere dello Stato Islamico e della rinata Al Qaida. Quell'abbaglio ha innescato anche il disastro Libia. Lì l'ex presidente Giorgio Napolitano ci spinse al fianco di Nato e miliziani jihadisti nella guerra ad un Muhammar Gheddafi che ci garantiva, oltre a gas e petrolio, anche il controllo dei flussi migratori.

Oggi rischiamo di ripetere gli stessi errori e di ritrovarci con una Tripolitania trasformata da alleata a pericolosa nemica. Dal 2016 l'Italia ha sempre appoggiato il Gna (Governo di Accordo Nazionale) riconosciuto dall'Onu. E l'ha fatto perché nonostante l'influenza delle milizie jihadiste che lo sorreggono il premier Fayez al Serraj riconosceva il ruolo guida dell'Italia. Ora tutto è cambiato. L'arrivo a gennaio delle truppe turche promesse da Erdogan per fermare l'avanzata del generale Khalifa Haftar rischia di trasformare la Tripolitania in una via di mezzo tra un mini Califfato jihadista e un feudo neo ottomano. All'origine dell'imminente e pericolosa metamorfosi vi è la natura delle truppe in arrivo dalla Turchia. A Tripoli non sbarcherà l'esercito di Ankara membro della Nato, ma un contingente di mercenari formato da ex ribelli reclutati tra i gruppi jihadisti, Isis compreso, già attivi in Siria e Iraq. Gli stessi tagliagole jihadisti mandati, ad ottobre, ad invadere il nord est siriano e a seminare il terrore tra le popolazioni curde vittime di esecuzioni, decapitazioni e orrori di ogni genere.

L'inevitabile connubio dei nuovi tagliagole con le forze jihadiste di casa fra Tripoli e Misurata e gli interessi di un Erdogan tornato ad indossare i vecchi panni islamisti rappresenta una grossa minaccia per l'Italia. Sotto l'egida del Sultano e dei suoi «bravi» Tripoli rischia di diventare non solo la nuova sponda da cui tener in scacco l'Europa con la minaccia dell'esodo migratorio, ma anche un porto franco per le rotte del terrorismo jihadista che s'intersecano tra Siria e Turchia. Il tutto mentre Ankara, alla disperata ricerca di risorse energetiche, cercherà di sottrarre all'Eni le concessioni su petrolio e gas. Ad oggi l'unica misura messa in campo per prevenire tutto ciò è la prossima missione libica dei ministri degli esteri di Parigi, Londra e Berlino guidati dal nostro Giuseppe di Maio. Non esattamente un sinonimo di successo. La Francia che, eliminato Gheddafi, ha puntato su Haftar facendoselo alla fine scippare da Emirati e Russia non è certo un partner credibile. Lo stesso dicasi per un'Inghilterra rifugio a suo tempo dei jihadisti anti Gheddafi, ma oggi sostanzialmente estranea al caos libico. La Germania, da mesi alle prese con l'organizzazione della Conferenza internazionale indispensabile per abbozzare la trattativa Serraj-Haftar, non sembra esattamente sul pezzo. Per questo tutti e tre stanno volentieri mandando avanti il nostro Di Maio. Che rischia, però, di ritrovarsi alla testa di una missione impossibile. Una missione in cui divergenze e debolezze europee regaleranno altro spazio a Erdogan sul fronte della Tripolitania.

Riducendo ulteriormente la capacità d'influenza dell'Italia.

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