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Liguria, Puglia, la rossa Toscana È tutto il Paese che dice basta

Nel 2016 un vero boom di proteste dei cittadini contro la distribuzione dei migranti. Ma restano inascoltate

Liguria, Puglia, la rossa Toscana È tutto il Paese che dice basta

«Siamo un paesino pulito, abbiamo la nostra quotidianità, non deve essere intaccata da estranei», dicono a Gorino. «In una realtà così piccola, come si fa a integrare 50 immigrati, tutti maschi?», fanno eco ad Atessa, Chieti, mentre arriva un pullman di migranti eritrei. Ma la domanda è la stessa da Abano (Padova) a Laureto (Brindisi), da Genova a Reggio Calabria. Provvedimenti prefettizi, bandi di accoglienza, ex caserme ed ex hotel trasformati in hub. E ora anche requisizioni. Tutto molto spesso senza preavviso secondo una strategia del fatto compiuto che dovrebbe aggirare le proteste. Che invece nell'anno degli sbarchi record - il 10% in più rispetto al 2015 - si sono moltiplicate da nord a sud. Dalle coste l'emergenza ha fatto irruzione nella profonda provincia italiana a decomporre le certezze e la fiducia nelle ripetute promesse di sicurezza e integrazione. Si alzano le barricate, non più solo metaforiche. «Quella non è l'Italia», ha detto il ministro Alfano. Ma prima di Gorino il 2016 ha visto molte altre strade sconosciute a stampa e riflettori riempirsi di piccoli comitati carichi di slogan e striscioni. Mamme, pensionati, lavoratori, solo un brusio per il Viminale rispetto al rumore delle violente manifestazioni No Borders. Erano 500, al grido di «Verona ai veronesi», quelli scesi in corteo due giorni fa a Castel d'Azzano, dopo che ai proprietari dell'hotel Cristallo, 4 stelle, è giunta la stessa lettera ricevuta dalla titolare dell'ostello di Gorino. Un decreto di requisizione provvisoria delle stanze da fine ottobre a fine gennaio.

A Pietrafazzana, in provincia di Chieti, i cento abitanti credevano di aver scongiurato l'assegnazione di 50 migranti, la metà della popolazione, quando a marzo si erano radunati nel «Comitato per la serenità del territorio» davanti alla prefettura. Adesso il rischio è che ne arrivino cento, con un rapporto residenti-migranti uno a uno. Ed è la schizofrenica applicazione della regola dei 2,5 ogni mille abitanti, la bibbia nei piani di accoglienza del ministero, a trasformare un'iniziale diffidenza in esasperazione.

Se la rivolta agostana di Capalbio - perla marittima della sinistra radical chic che in piena stagione estiva si era opposta all'arrivo di decine di profughi - insegna che l'accoglienza non ha bandiera politica, quella di poche settimane fa fuori da una ex base militare ad Abano, la città delle Terme, invia un messaggio alle prefetture: «Basta» con la «soluzione caserma», dove il provvisorio diventa definitivo e numeri elevati concentrati in territori minuti incrinano la convivenza. L'esempio c'è già, nelle vicine Bagnoli e Cona, con 1.252 profughi per novemila abitanti. Sono giorni che pure nel quartiere di Archi, alla periferia di Reggio Calabria, la tensione è alle stelle. Alcuni episodi di molestie riferiti dai residenti sul centro che ospita 300 minori non accompagnati, lasciati senza regole né percorsi di integrazione, sono benzina sul fuoco. A Laureto, frazione nella provincia di Brindisi, i cittadini prima di accettarli, hanno negoziato gli arrivi in una struttura della Curia chiedendo una maggiore presenza di «forze dell'ordine». A Monastir, Cagliari, una ex scuola penitenziaria destinata all'accoglienza è stata devastata da un incendio doloso. E fumogeni hanno acceso Fiumicino, Roma, la scorsa estate, per dire no a 50 migranti, mentre a San Nicola La Strada, Caserta, i residenti bloccavano con cassonetti e transenne il traffico: troppi altri 100 migranti, con 200 già accolti in un ex albergo.

Ad Aulla, Massa Carrara, 30 famiglie si sono rivolte a un avvocato contro la sistemazione in una palazzina vicino alle loro abitazioni.

Delle dure contestazioni di agosto di residenti e commercianti della via dello shopping di Genova è rimasto nulla: i primi migranti sono arrivati in via XX Settembre.

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