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L'imam belga e il miliziano liberati dai nostri giudici

Arrestati a Bari perché legati ad Al Qaida, per le toghe non erano terroristi

L'imam belga e il miliziano liberati dai nostri giudici

Bari - Se ne andavano tranquillamente in giro tra Asia ed Europa, passando senza problemi da un Paese all'altro. E l'11 novembre del 2008 sbarcarono a Bari, dove la polizia di frontiera li fermò perché a bordo del loro camper c'erano cinque immigrati senza passaporto. Ma dopo l'esame di documenti e intercettazioni, e grazie anche a un fitto scambio di informazioni con l'intelligence europea, le indagini presero tutt'altra piega: secondo gli investigatori, infatti, quei due uomini approdati in Puglia come passeggeri qualunque da un normale traghetto di linea proveniente dalla Grecia erano personaggi di spicco di Al Qaeda. Risultato: nuove pesanti accuse, un'inchiesta che si arricchisce di inquietanti particolari come le conversazioni captate in carcere con riferimenti ad attentati in Inghilterra e Francia, e un lungo percorso giudiziario. Che si conclude però con l'assoluzione.

Si tratta di una delle vicende più controverse nelle indagini sul terrorismo internazionale. Una storia che ha come protagonisti l'ex imam di Bruxelles, Bassam Ayachi, siriano, all'epoca 63 anni, e l'ingegnere informatico francese Raphael Gendron: quest'ultimo, tornato in libertà dopo essere stato scagionato dai giudici, è morto poco più di un anno fa combattendo nelle file di una milizia islamista in Siria. Dove sarebbe finito più volte anche Ayachi, che ha sempre sostenuto di essere impegnato negli aiuti umanitari ma da tempo è nel mirino della polizia belga che lo sospetta di essere l'ideologo di una delle fazioni in guerra.

Tutto comincia durante un'attività di pattugliamento della polizia al porto di Bari, uno scalo dove nonostante gli accordi di Schengen i controlli non sono mai stati messi da parte e anzi sono piuttosto rigidi. Al punto che in passato le autorità italiane hanno anche dovuto subire una ramanzina dall'Europa che all'epoca non gradiva evidentemente maglie così strette e ostacoli alla libera circolazione. Fatto sta che l'11 novembre del 2008 quel camper non passa inosservato. Gli agenti bloccano il veicolo e da un doppiofondo spuntano cinque clandestini: tre palestinesi e due siriani. L'operazione sembra finita lì, ma a un agente non sfugge la presenza di sei pendrive e alcuni dvd, uno dal titolo «Torture». Proprio dopo l'esame di quei file arriva la svolta: nei documenti ci sono riferimenti ad Al Qaeda oltre a svariati cataloghi di armi e materiale propagandistico; a tutto questo si aggiungono le parole intercettate in carcere: «Ci ammazziamo colpendo, colpiamo… non hai bisogno che ti dica che significa avere un aereo francese», dice l'imam all'ingegnere. Il quale spiega che «bisogna colpire gli inglesi» e «cambiare posto» mentre l'altro fischia per simulare il rumore di un jet e dichiara: «Colpirò De Gaulle». Insomma, i sospetti diventano sempre più consistenti. Del resto, l'ex imam non fa nulla per nascondere le proprie convinzioni: il figlio non a caso si chiama Mohammed Atta come uno degli attentatori dell'11 settembre e con gli investigatori ammette tranquillamente di aver deciso così «perché per me lui è un eroe».

La vicenda approda in un'aula giudiziaria. Nel giugno 2011 Ayachi e Gendron vengono condannati in primo grado a otto anni di reclusione, ma nel luglio del 2012 la Corte d'Appello dispone l'assoluzione: la decisione viene annullata dalla Cassazione ma nel nuovo giudizio di secondo grado, il 3 aprile del 2014, i giudici li assolvono ancora una volta.

La sentenza non viene impugnata e diventa definitiva.

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