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L'inciucio? Si fa ma non si dice

L'inciucio? Si fa ma non si dice

L'asse delle ascisse misura il pragmatismo, che va dalla cinica spregiudicatezza di Verdini al candore del mondo dei Teletubbies; quello delle ordinate calcola il grado di coerenza dall'ottuso fondamentalismo alla volubilità assoluta delle banderuole di professione. In questo piano cartesiano della condotta politica, il Movimento 5 Stelle è approdato nei pressi del centro perfetto nel preciso istante in cui Luigi Di Maio, un peso sul cuore e un macigno in bocca, si è presentato davanti ai microfoni del Quirinale e non ha trovato la forza di nominare il soggetto con cui stava «interloquendo». Non Satana, ma qualcosa che nella narrazione grillina ha la stessa mauvaise réputation, ovvero il Pd.

Nella sua inarrestabile normalizzazione, che assume la meraviglia di una tardiva e adolescenziale scoperta dei meccanismi della realtà, il M5s ha caramente salutato il mito fondativo dell'«alterità» e del massimalismo inderogabile. Ha imparato - e in fretta - che il compromesso è l'essenza stessa della politica e che l'alleanza è inevitabile, a meno di vivere nella coerentissima Cambogia di Pol Pot o in qualche distopia.

La caduta dei manichei stellari sulla Terra non è una cattiva notizia: sono orecchie guadagnate alla discussione e al confronto. A cui pochi anni fa i grillini si sarebbero sottratti schifati lavandosi le mani con la varechina, per paura del contagio del marciume morale dei partiti. Oggi sappiamo che all'occorrenza sanno farsi concavi e convessi, pretendere e cedere, alternare trasparenza in streaming e riservatezza di Palazzo, barra a dritta e «convergenze», rigore ideologico e Realpolitik (sul Tap, sulla Tav, sul taglio dei parlamentari «ora e subito» ma va bene anche fra un po').

Ma - parafrasando il film L'odio - «il problema non è la caduta: è l'atterraggio». E l'atterraggio del M5s nella zona del «così fan tutti» porta con sé traumi collettivi e vissuti personali di disagio. Come quel groppo alla gola di Di Maio nel dire: «Trattiamo con il Pd». Si chiama vergogna e di per sé è quel che ci rende umani, ci fa prendere coscienza della nostra finitezza e ci spinge a migliorare. Il guaio è che la vergogna dei grillini è strabica. Sono fisicamente inibiti a dire «trattiamo con il Pd» come Alex di Arancia meccanica non riusciva a vedere film violenti dopo la rieducazione, ma brandiscono come un valore quell'«uno vale uno» che svilisce la meritocrazia e glorifica l'ignoranza. Un peccato originale ben più disonorevole della ricerca realistica di una maggioranza diversa che in queste ore si fa ma non si dice, come se fosse scabroso.

Certo, tutto sarebbe più facile se nell'essenza stessa dei 5 Stelle non ci fosse l'insulto sprezzante degli avversari a 360 gradi. Mafiosi, corrotti, partito di Bibbiano, partito delle banche, partito di plastica, ladri: gragnuole di giudizi inappellabili che piovono sui giusti e sugli ingiusti, che le vittime collaterali del disprezzo non preoccupano. Fino a quando - e si torna alla realtà - poi non ti trovi obbligato a farci un governo insieme. E «allora tutti e due erano nudi, ma non ne provavano vergogna».

O forse sì, almeno stando a quel groppo rivelatore di Di Maio, novello Signor K: «E fu come se la vergogna gli sopravvivesse».

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