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L'inno d'Italia al Papeete? Per i militari è una stecca

"Serve rispetto". Dal Cocer agli ex, la protesta per le note di Mameli tra drink e ballerine

L'inno d'Italia al Papeete? Per i militari è una stecca

Una volta tentarono di usare Fratelli d'Italia per lo spot di una nota marca di collant. Si scatenò un putiferio. E va bene, sono passati dieci anni, ma i simboli restano simboli, anche quando sono controversi come questa marcia scritta dal risorgimentale giacobino Goffredo Mameli, appassionato di liberté, égalité, fraternité e non proprio letterato eccelso, tanto che il Canto degli italiani, inno provvisorio dal 1946, ha ottenuto il rango di inno nazionale solo nel 2017.

I simboli restano simboli e dileggiarli come al Papeete Beach di Milano marittima agitandosi al ritmo di un mojito resta un gioco sciocco, soprattutto se ti chiami Matteo Salvini e sei il ministro dell'Interno. Bene che ti vada offendi i militari. Per loro «l'Italia chiamò», «stringiamoci a coorte», «siam pronti alla morte» non sono i versi di una canzoncina su cui far trotterellare i piedi quando al tramonto la sabbia si raffredda. Sono parole che accompagnano ogni giorno la vita e a volte la sua fine, mentre risuonano proprio quelle note distorte al mixer dello stabilimento balneare romagnolo.

«Certe scene disturbano e io non l'avrei permesso» dice dall'alto della sua durissima esperienza il tenente colonnello Gianfranco Paglia, medaglia d'oro al valor militare, ferito nel 1993 durante una missione in Somalia. Sembra di offenderlo ad accostarlo a queste coreografie da fine impero (governo?), mentre le villeggianti di Milano marittima ballano in costumi succinti e giustamente leopardati, visto che siamo al mare e che le stampe animalier sono uno dei must dell'estate 2019. Ma se qualcuno cerca di spiegarsi che c'entri il titolare del Viminale e l'inno nazionale, l'impresa si fa dura. «Ho sempre rispettato tutto e tutti - dice Paglia - anche chi mi ha sparato il 2 luglio 1993. Credo nei valori e nelle parole scritte nell'Inno, che ci rappresenta».

Protesta in modo più formale il generale di brigata Francesco Maria Ceravolo, presidente del Cocer Difesa: «L'inno nazionale si suona in determinate circostanze ben previste dal protocollo. E c'è bisogno che tutti si attengano a quelle circostanze», «con il dovuto atteggiamento». Secondo l'etichetta, tralasciando tutto il resto, bisognerebbe almeno stare sull'attenti. La presenza di Salvini alla consolle, nonostante il contesto balneare, rende più difficile buttarla sulla goliardata. Voce fuori dal coro il generale Mario Arpino, ex capo di Stato Maggiore della Difesa, convinto che tanto parlare faccia il gioco del vicepremier: «Mi meraviglio di tutto, tranne che di Salvini». E nel merito: «Occorre rispetto, ma che le lezioni vengano da chi quel rispetto lo ha annullato....».

I simboli restano simboli anche quando mezzo Paese giura di preferire Va' Pensiero fin dai tempi di Enzo Tortora e del suo Portobello, e mettersi contro i simboli vuol dire ferire carne, anime e sangue, insomma uomini, o almeno alcuni di loro. C'è chi si indigna con i calciatori che rimangono a bocca serrata in mezzo al campo o non perdona gli ospiti illustri dei palchi reali di teatri o delle tribune d'onore degli sport vip. Figurarsi l'oltraggio sovranista all'inno nazionale.

Infine i panni sporchi tra leghisti: ma quelli se li laveranno serenamente in famiglia.

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