Cronache

"L'Isis ci è entrato nella testa. E l'ansia ci segue ovunque"

Lo psichiatra: «Gli ultimi fatti hanno spinto i ragazzi a fuggire per istinto. La paura è un contagio emotivo»

"L'Isis ci è entrato nella testa. E l'ansia ci segue ovunque"

«Torino è l'esempio più lampante che l'Isis ci ha già cambiato la testa, ci ha già cambiato la vita». Corrado De Rosa, psichiatra e scrittore, esperto dell'uso della follia nei processi di mafia e di terrorismo, è convinto (come chi scrive, del resto) che per certi versi tra quello che più o meno nello stesso momento avveniva a Londra e avveniva a Torino sia più significativo quest'ultimo, anche se là ci sono stati dieci morti e qui un migliaio di feriti, di cui tre gravi. Ma alle volte non conta soltanto la contabilità delle vittime, conta il significato recondito di quello che ci accade.

E il significato di quello che è accaduto in piazza San Carlo qual è?

«Torino è il più grande successo di chi ha architettato la strategia del terrore. Freud teorizzava che la sicurezza e la libertà sono due valori antitetici e che la nostra dipende da quanto noi siamo disposti a sacrificare dell'una per avere l'altra. In questo momento il pendolo è decisamente più vicino alla sicurezza e questo riduce la nostra libertà».

E quali conseguenze ha questo?

«La riduzione della qualità della vita, l'aumento del livello di tensione, l'ansia collettiva. E poi la paura del terrorismo altera i nostri comportamenti nella scelta dei nostri divertimenti, se uscire o non uscire, nella organizzazione delle nostre vacanze».

Come può accadere che migliaia di persone fuggano e si calpestino l'un l'altro solo per psicosi?

«Non si tratta di comportamenti psicotici o irrazionali. Non deve immaginarsi un gruppo di persone che vanno fuori di testa, non deve pensare a un disagio psicologico, a una malattia. Semmai dobbiamo dire che quando ci troviamo nella folla la nostra razionalità fa un passo indietro».

Ma la filiera di situazioni che genera un comportamento come quello della folla a Torino qual è?

«C'è un'azione, in questo caso l'esplosione di un petardo e la quasi contemporanea caduta di una ringhiera, una reazione, la paura, il contagio emotivo dovuto alla folla, la voglia di mettersi in salvo e la gente che si muove tutta insieme. Il tutto a pochi giorni di distanza da Manchester, che è stata l'apoteosi del terrore».

Perché Manchester è stata più grave di altri attentati?

«Perché sono stati attaccati i bambini, i ragazzini, i nostri figli. A questo non eravamo ancora abituati, è stato come passare a un livello successivo».

Ma quanto conta l'ansia che ci accompagna ovunque?

«Conta. Chi va a Torino in piazza a vedere la partita sul maxi-schermo con migliaia di altre persone, così come del resto chi va a Cardiff, mette in conto di trovarsi in pericolo. E quando c'è un presunto allarme tutto è amplificato».

Lei dice che in questo non c'è irrazionalità. Ma ci sono comportamenti irrazionali a cui la paura dell'attentato ci espone?

«Certo. Ne ricordo due. Qualche mese fa sempre a Torino un cinema si svuotò di botto perché alcuni marocchini in sala stavano scambiando degli sms e qualcuno interpretò questo comportamento come la preparazione di un attentato. E poi a Salerno, nella mia città, quando doveva essere processato un giovane accusato di essere il basista degli attentati di Parigi, iniziò un vocìo generale che spinse le mamme, che si fomentavano a vicenda su un gruppo WhatsApp, a non mandare i figli nella scuola vicina al tribunale. Solo che il processo avveniva a otto chilometri di distanza da là».

Eccessi, certo. Ma finiremo per «israelizzare» le nostre vite, per vivere il terrore come normalità?

«Non lo so. Da un lato che la popolazione si più sensibile ai segnali di pericolo è positivo. Anche i poliziotti vengono ora formati al cosiddetto blink, il battito di ciglia che può fare la differenza tra la vita e la morte. Dall'altro lato non ci potrà mai essere una totale abitudine alla paura.

Per fortuna, direi, visto che l'Isis vuole proprio questo: tenerci sempre all'erta».

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