Cronache

L'Italia ha una fortuna oltre confine ma non vuole riportarla a casa

Delle 2.452 tonnellate in possesso solo 1.000 sono depositate nelle segrete di via Nazionale. Bankitalia: «Strategia adeguata»

L'Italia ha una fortuna oltre confine ma non vuole riportarla a casa

I pochi che hanno avuto il permesso di mettervi piede hanno prima dovuto superare un portone blindato, spesso oltre mezzo metro e aperto da tre diverse chiavi, e poi una cancellata che si spalanca su uno stanzone con migliaia di lingotti d'oro, diligentemente allineati su scaffalature protette da una griglia. Benvenuti nel santuario sotterraneo di Palazzo Koch, sede della Banca d'Italia, laddove sono custodite 1.100 tonnellate del principe dei metalli. Niente finestre, ambiente claustrofico, ma l'aria che si respira è quella della ricchezza di un intero Paese, la carta della disperazione da giocare in caso di estremo bisogno. Meglio detta: una parte di quella ricchezza. Perché l'Italia arrancante, appesantita da un debito elefantiaco e da un Pil asfittico, luccica nel golden club mondiale con un terzo posto assoluto (meglio di noi, solo Stati Uniti e Germania) garantito da riserve pari a 2.452 tonnellate. Tradotte in euro, fanno circa 100 miliardi. Più del controvalore di tre manovre finanziarie.

Solo una porzione della ricchezza aurea italiana è dunque depositata nel caveau di Bankitalia. Il resto è custodito nei forzieri della Federal Reserve americana (oltre 1.060 tonnellate), della Banca dei regolamenti internazionali (circa 150) e della Banca d'Inghilterra (141). Se il petrolio scorre, l'oro fisico corre, spostandosi e passando di mano da una parte all'altra del globo con la leggerezza di una libellula in rapporto al peso. Ogni lingotto, nella classica forma a parallelepipedo, a mattone (tipo americano), a panetto (tipo inglese), varia infatti da un minimo di 4,2 a un massimo di 19,7 chilogrammi. Insomma, le giacenze ricordano un po' l'elastico: col tempo si possono allungare, oppure accorciare. Non c'è nulla di immutabile. Da sempre è così. Ne è un esempio proprio la storia di Bankitalia, fondata nel 1893 con un tesoretto di 150 tonnellate, salite nel 1933 a 561 e poi crollate durante la seconda Guerra mondiale a un centinaio dopo il trafugamento delle nostre riserve da parte dei nazisti in fuga. Oro in parte recuperato, visto che qualche «mattoncino» conservato nelle segrete di via Nazionale ha ancora stampigliata una svastica sul dorso.

Usato talvolta come garanzia per ottenere prestiti (è successo nel 1976 con la Bundesbank), lo stock d'oro è servito nel 1999 per versare un obolo da oltre 140 tonnellate alla neonata Bce, di cui l'Italia è il terzo azionista. Non è dato sapere se questo «obolo» tornerà in nostro possesso in caso di disfacimento dell'euro. Di sicuro, l'Eurotower ha una dote da 504 tonnellate, di cui il 50% depositate presso la Fed e la Bank of England. Come si vede, l'allocazione altrove della propria capienza d'oro è un'abitudine. E qualche motivo c'è, a cominciare dal posto in cui l'oro è stato comprato. Ma, soprattutto, l'esigenza delle banche centrali è quella di mantenere parte delle riserve vicino ai centri finanziari dove il metallo giallo viene negoziato, così da poterlo vendere rapidamente in caso di necessità e senza l'aggravio di costi derivante dal trasporto.

Ora, però, va rafforzandosi la tendenza al rimpatrio dei depositi aurei. Nell'ultimo anno, potrebbero essere state ritirate da New York e Londra oltre 500 tonnellate d'oro da parte di Stati europei, con la Germania in testa.

E l'Italia? Immobile, a sentire Bankitalia: «Al momento, l'attuale allocazione geografica delle riserve risulta adeguata e, pertanto, non sono previste ricollocazioni di oro».

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