Cronache

"L'Italia è insuperabile Così il nostro caffè ha conquistato il mondo"

Il vicepresidente dello storico marchio torinese «Ci imitano, ma solo per noi c'è un vero culto»

"L'Italia è insuperabile Così il nostro caffè ha conquistato il mondo"

C'è un paradiso domestico in Italia, alla portata di tutti. Ha le nuvole di ovatta, è abitato da strani tipi e odora di caffè come la stanza della storica sede di via Novara 59 in cui ci riceve Giuseppe Lavazza, 51 anni, vicepresidente e membro del cda del marchio che in tutto il mondo significa espresso. Quarta generazione della famiglia che a Torino nel 1895 ha inventato la miscela di caffè e ha imposto uno stile che noi italiani, per cui il caffè in tazzina è pratica quotidiana, trattiamo con noncuranza. «Si deve partire dalla lingua - spiega mister Lavazza -. Il caffè parla italiano come la musica del Settecento. In questo mondo abbiamo ispirato un po' tutti. In Italia abbiamo imparato a miscelare prodotti adatti a consumi diversi in momenti diversi della giornata. E poi ogni cosa che arriva dall'Italia è buona ed è bella. Il caffè non è altro che una prosecuzione del nostro stile, che fa della semplicità un fattore di seduzione».

Al punto che c'è un italian sounding anche nel caffè...

«Siamo copiati e imitati. A volte con stile, altre no. Ma nessuno ci potrà superare. Se oggi le macchine per fare l'espresso sono come lo smartphone e si trovano in ogni parte del mondo, è merito di noi italiani. E della Lavazza».

Ma che cosa ha reso l'Italia la patria del caffè?

«Il big bang è stata l'idea del mio bisnonno, Luigi Lavazza, di miscelare differenti caffè in modo sartoriale, creando una sorta di atelier dell'espresso. Che oggi ci consente di avere blend apprezzati in tutto il mondo e anche dei single origin, praticamente dei cru».

Pausa-cifre, il tempo di un espresso. Lavazza vuol dire venti miliardi di tazzine l'anno. Tremila dipendenti. Sesto posto tra i torrefattori mondiali con 120mila tonnellate l'anno. Un fatturato di oltre 1473 milioni (bilancio 2015). Paesi del mondo raggiunti: 90. Export: 55 per cento. «Merito dei nostri valori», taglia corto Lavazza.

Li elenchi, questi valori.

«Lavoro. Ambizione. Orgoglio. Eticità. E prudenza. Esiste qualcosa di più piemontese della prudenza?».

Niente, in effetti. Ma è prudente restare in Italia? Tutti delocalizzano e voi a Torino inaugurate un centro direzionale da 120 milioni...

«Ci dicono che siamo pazzi. Che siamo strani. Solo perché amiamo l'Italia e vogliamo restarci. Sì, stiamo riqualificando nel quartiere Aurora, che ci ha sempre portato fortuna, una vecchia area appartenuta all'Enel, che trasformeremo nel nostro centro direzionale e abiteremo da febbraio prossimo lasciando le nostre quattro sedi attuali. Un complesso di edifici preesistenti che abbiamo riqualificato facendo dialogare passato, presente e futuro. Ci sarà un museo Lavazza in una vecchia centrale tutelata dalla soprintendenza, un giardino a disposizione della popolazione, un parcheggio sotterraneo, un centro eventi, un ristorante gastronomico alla portata di tutti ispirato a Ferran Adrià, il grande chef spagnolo. Tutto contemporaneo, easy, destrutturato, come direbbe l'architetto Crozza nei nostri spot».

Ecco, la pubblicità tv. Per voi è sempre stata fatidica...

«Grazie agli spot televisivi noi abbiamo letteralmente costruito l'immagine del caffè in Italia, facendolo diventare parte della nostra quotidianità, una cosa positiva fatta di condivisione, pausa, godimento organolettico e psicologico. Merito anche dell'intuizione di Armando Testa».

Che inventò Carmencita e Caballero, intravisti all'ingresso dei vostri uffici...

«L'idea era quella di strappare un sorriso. Poi siamo andati avanti con Nino Manfredi e Natalina in un ambiente domestico nel quale screzi e problemi venivano risolti con un po' di caffè. E ora da vent'anni abbiamo immaginato questo paradiso come riproduzione surreale dello stesso ambiente domestico».

Immagine pacioccona in Italia e sofisticata all'estero.

«Nel mondo l'espresso è considerato un prodotto di nicchia, che gli esperti di marketing definirebbero aspirazionale. In America non puoi ragionare di chicchi e di torrefazione, devi esprimerti per emozioni. Così abbiamo puntato su grandi fotografi e abbiamo fatto del caffè un oggetto fashion, che venisse compreso anche da un pubblico non preparato. ma le due strade stanno inziando a convergere».

È il consumo italiano del caffè che si sta globalizzando o è quello mondiale che si sta italianizzando?

«Direi che è il mondo che si sta italianizzando. Anche se produciamo anche prodotti molto graditi all'estero come il caffè istantaneo e quello americano».

Quali sono i vostri mercati migliori?

«La Germania, dove c'è un rispetto che confina con il culto per i prodotti italiani. E poi Francia, Australia, Usa. E Gran Bretagna. A proposito, le dico questo: non ci sarà una Brexit del caffè. Anche se la svalutazione della sterlina ci ha presentato un conto da 5 milioni...».

Germania a parte, gli altri quattro Paesi ospitano i Grand Slam del tennis...

«Noi siamo sponsor ufficiale dei quattro tornei».

Avete anche Andre Agassai come testimonial. Tennis-caffè, strana coppia...

«Che funziona. Un torneo dello slam è un enorme temporary coffee-shop di 15 giorni. Un luogo prestigioso e al contempo democratico che macina un numero di caffè impressionante. Anche se i giornalisti...».

Oddio, che abbiamo fatto?

«Il primo anno a Wimbledon davamo l'espresso gratis ai suoi colleghi. Il conto presentato all'organizzazione è stato tale che dall'anno dopo l'espresso era a pagamento».

Maledetti giornalisti (un caffè, per favore).

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