Politica

Liti al vertice, ultradestra già divisa E l'ex leader Petry abbandona l'AfD

Choc in conferenza stampa: «Non è più il mio partito, vado via»

Daniel Mosseri

Berlino La vendetta va servita fredda. Una lezione che Frauke Petry ha bene appreso e messo a punto all'indomani delle elezioni tedesche. Nata 42 anni fa a Dresda, capitale della Sassonia e cuore pulsante del nazionalismo tedesco, Petry è (probabilmente ancora per poche ore), la co-presidente di Alternative für Deutschland, il partito xenofobo e populista uscito vittorioso dal voto di domenica. Con il 13% dei voti guadagnati sul territorio nazionale (ma con il 27% è il primo partito in Sassonia) e una novantina di deputati pronti a entrare al Bundestag, AfD ha sconvolto il panorama politico nazionale.

Petry, dal canto suo, ha tentato di rovinare la festa del partito distogliendo l'attenzione dei media accorsi a Berlino alla conferenza stampa della dirigenza di Alternative für Deutschland. «Non dobbiamo celare il fatto che dentro ad AfD esistano delle differenze - ha esordito a sorpresa -. Dal 2013 al 2015 abbiamo avuto l'ambizione di essere un partito di governo», ha poi ricordato ripercorrendo la breve storia della formazione nata per portare la Germania fuori dall'eurozona. «Oggi non è più così - ha aggiunto -, ma non è quello che voglio io». Da cui la conseguenza: «Dopo approfondita considerazione ho deciso che al Bundestag non siederò assieme al gruppo di AfD. Vi prego di non pormi altre domande. Grazie e arrivederci». Gelo in sala e imbarazzo degli altri esponenti del partito.

La plateale uscita di scena della co-presidente, subito invitata dalla candidata di punta Alice Weidel a dimettersi dalla presidenza, può essere interpretata con due chiavi di lettura. La prima è quella della vendetta personale. Più di molti altri colleghi Petry incarna la linea anti-Merkel e anti-immigrati che ha portato la formazione al successo elettorale. Prima di allora nel menu politico di AfD c'erano solo l'euro e il salvataggio della Grecia. È stata proprio Petry a imporre nel 2015 una sterzata ad AfD che, accantonata la questione della moneta unica, ha abbracciato la retorica nazionalista e xenofoba, puntando sullo scontro frontale con la cancelliera impegnata nell'accoglienza ai profughi. Era stata Petry, al congresso del partito a Essen nel luglio del 2015, a vincere l'elezione alla presidenza, spodestando il fondatore del partito, l'economista di Amburgo Bernd Lucke. Pochi giorni dopo, Lucke lascerà AfD in polemica contro la linea anti-islamica e anti-immigrati.

In meno di due anni, tuttavia, la stessa Petry ha perso il controllo di AfD, superata a destra da singoli esponenti più interessati a rilasciare dichiarazioni alla stampa che a costruire una forza di governo, ed è stata allontanata dalla sala di comando del partito. AfD le ha sì permesso di correre per il Bundestag con i colori della Sassonia, ma come candidati-bandiera le ha preferito la giovane Weidel e il 76enne Alexander Gauland, contro i quali oggi Frauke Petry si è vendicata.

L'altra chiave di lettura è ovviamente quella politica: lo scontro davanti ai giornalisti è il riflesso di una compagine poco omogenea, assemblata in fretta e furia per seguire l'incessante ritmo delle elezioni regionali (fra marzo 2016 e maggio 2017 si è votato in dieci dei sedici Länder tedeschi) e preparare le politiche di domenica. AfD ha così raccolto euroscettici e nazionalisti, liberali e neonazisti in un progetto che, come lo stesso Gauland ha ripetuto a più riprese, non è di governo ma di opposizione dura e pura.

Il partito che fu di Lucke e di Petry deve ancora dimostrare se ha un'identità, valori e un programma chiaro.

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