Cronache

ll 4 novembre di Gino Mazzini reduce che compie cento anni

Dalla vita nella Bassa alla prigionia delle Ss e dei russi È la sua festa: «Purtroppo non posso stare sull'attenti»

ll 4 novembre di Gino Mazzini reduce che compie cento anni

«Non potrò mettermi sull'attenti». È il cruccio di Luigi Mazzini, reduce della seconda guerra mondiale e dei campi di prigionia tedeschi, che domani festeggia cento anni. Un secolo celebrato insieme all'unità d'Italia e alle forze armate. Un secolo intero tutto trascorso fra Pieve San Giacomo e Sospiro, due paesini alle porte di Cremona, dove Gino - come lo chiamano tutti - ha vissuto tutta la sua esistenza, in pace con se stesso e col mondo, tranne quei due anni passati in Germania, prima prigioniero dei tedeschi e poi - per qualche mese - in mano ai russi, fino alla sua personale liberazione sul finire del settembre nel '45.

«Un uomo buono» dicono nel suo paese, dove lo hanno sempre visto girare in bicicletta: prima andare nei campi, poi a lavorare in un caseificio della zona, e a messa tutte le domeniche. «Oggi non sono andato perché aspettavo visite» spiega nel suo bel dialetto cremonese. Gino è il figlio di una tradizione in cui un certo socialismo umanitario, diffuso nelle campagne lombarde, andava a braccetto senza problemi con la fede cristiana. E ha vissuto così, semplicemente sereno: dal 1948 con la moglie Elvira, poi quando Elvira purtroppo se n'è andata è rimasto solo. Fino a due anni fa, quando alle soglie dei 98 anni ha accettato l'idea di un aiuto alla Fondazione Sospiro, una delle maggiori realtà assistenziali della Lombardia, all'avanguardia nella cura di anziani e disabili. Qui verranno a trovarlo e a festeggiarlo tutte le autorità locali e le associazioni d'arma e ovviamente Giovanni Scotti, che è stato a lungo sindaco e ha curato le memorie sue e di altri reduci della Guerra e ora è presidente della Fondazione.

Non potrà mettersi sull'attenti Gino, perché le gambe non sono più quelle di una volta, quelle di quando lavorava e pedalava in campagna. Ma la mente è lucida e presente. E Gino sorride teneramente all'idea delle sue prime cento candeline. Luigi Mazzini è nato a pochi chilometri da Sospiro, a Pieve San Giacomo. Aveva 3 fratelli e 4 sorelle. Coscritto, il 16 febbraio 1940 andò in Sardegna nel 13° Genio, poi passò al 46° fanteria per fare il corso di radiotelegrafista. Il ricordo di Olbia sono le bombe. Poi l'arrivo a Trieste, dove lo sorprese l'8 settembre. Era al 5° Genio: si era specializzato nella gestione delle stazioni radio telegrafiche e a Milano aveva fatto un po' da istruttore. A Trieste era arrivato pochi giorni prima e con altri presidiava la zona insieme a un nucleo della Wehrmacht. L'8 settembre era proprio di «ronda» con alcuni soldati tedeschi: arrivato in caserma, sette o otto di questi circondarono lui e altri due italiani, sequestrando le loro armi e facendoli prigionieri nella cantina. Furono arrestati altri tre commilitoni italiani, reclusi fino all'11 settembre, giorno del trasferimento in una caserma degli alpini a San Pietro del Carso. Uno dei fratelli di Gino si unì ai partigiani, non si sa bene di che «colore». «Non era una questione politica» assicura lui. Gino invece fu trasferito prima a Torun - dove scrisse una lettera ai genitori - quindi a Brumberg e infine prima di Natale a Danzica, dove si contavano una cinquantina di uomini del Genio. Alloggio nel campo 379 (Gotenhafen) e lavoro coatto. «Ci hanno costretto a lavorare in fabbrica - ha raccontato a Scotti - Io dovevo usare il tornio e produrre dei manici di legno: al momento non capivo cosa fossero e a cosa servissero. Poi ho scoperto che erano i manici per un tipo di bombe a mano». Le bombe cadevano anche su Danzica e sul suo campo. «Finito il bombardamento dovevi rientrare alla svelta perché, se ritardavi, le Ss ti riempivano di botte. Finché siamo stati considerati prigionieri eravamo vigilati da uomini dell'esercito - prosegue il racconto - da quando siamo passati civili non c'era controllo, però alle 8 dovevi essere in fabbrica. Perché il ritardatario veniva preso dalle Ss che gli mettevano una corda al collo, lo impiccavano senza tante storie e lo lasciavano là appeso». Così, fino alla primavera '45, quando arrivarono i russi, ma non il rimpatrio. «Come si stava? Meglio non direi - ricorda oggi - ma si mangiava con le guardie». Il pensiero fisso era il ritorno ca sa. Gino e i compagni furono trasferiti a Varsavia e poi a Lodz.

Infine giunse il rimpatrio, con l'arrivo a Pescantina il 20 settembre 1945, poi da lì a Brescia, finalmente a Cremona e con un biglietto della corriera eccolo tornare a casa, dove lo aspettavano i genitori, e dove avrebbe conosciuto Elvira e poi vissuto così, in pace con se stesso e col mondo, partecipando, con la sua vita e semplice e onesta, alla costruzione di un Paese libero e forte.

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