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"Lui era l'uomo del rispetto. Eppure ha pagato per tutti"

Il pupillo di Forlani: "Con Mani Pulite subì una condanna che riteneva ingiusta. Ma non disse mai una parola"

"Lui era l'uomo del rispetto. Eppure ha pagato per tutti"

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Senatore Pierferdinando Casini, lei ieri ha detto che con Arnaldo Forlani scompare l'ultimo grande protagonista della stagione democristiana. In cosa consisteva quella grandezza?

«Forlani è stato l'ultimo segretario della Dc, cui ha legato tutta la sua stagione politica. È stato presidente del Consiglio, uomo di governo per tanti anni e in tempi travagliati. Per spiegare la grandezza sua e di altri protagonisti di quella fase della Repubblica, come ha ricordato Mattarella, bastano alcune delle scelte di fondo che seppero compiere: quella atlantica, ma tanto attuale come oggi; quella europeista; quella del multilateralismo come strumento per la pace. E poi Forlani era un tessitore, che applicava il motto di Winston Churchill».

Quale motto?

«Una frase che ricordavo spesso anche a Silvio Berlusconi, quando litigavamo: peggio che avere alleati cattivi c'è solo non avere alleati. Lui era l'uomo che, nei momenti di massimo scontro come quello tra Craxi e De Mita, si adoperava per tessere le intese. E spesso ci riusciva. Era l'uomo che insegnava il rispetto per gli avversari: nel 1983, quando ero appena stato eletto parlamentare, mi spiegò che dovevo votare la comunista Nilde Iotti alla presidenza della Camera. L'opposizione non era il nemico, le opinioni diverse non andavano demonizzate: concetti basilari che nella politica di oggi si vanno disperdendo in uno scontro accanito tra uomini delle caverne».

Eppure gli toccò un'uscita di scena assai dolorosa, sotto i colpi del pool di Mani Pulite.

«È un paradosso che proprio lui abbia finito col pagare per tutti. Lui che di certo non aveva profittato del potere né si era mai arricchito con la politica. Era molto legato a Helmut Kohl, ed ebbe una parabola assai simile. Ma proprio nell'umiliazione di quel processo dimostrò il suo enorme rispetto per le istituzioni, animato anche da profonda fede cristiana: subì una condanna che riteneva ingiusta ma non disse mai una parola, né ascoltò mai le sirene di chi lo invitava a tornare in scena. Era troppo dignitoso per farlo, la mia stagione è finita, diceva».

Forlani era l'ultima lettera dell'acronimo CAF, simbolo della fase terminale della Prima Repubblica. Cos'era?

«Un tentativo di uscire dalla crisi epocale ben prevista da Cossiga: la Dc e la Prima repubblica non sono morte per Tangentopoli: sono morte perché si erano esaurite le condizioni geopolitiche che le avevano accompagnate. La caduta del Muro di Berlino contò molto più di Mani Pulite in quella crisi. Ma mentre Cossiga reagiva dal Quirinale picconando, Forlani sperò di scongiurarla rilanciando, dopo gli anni della solidarietà nazionale col Pci, la storica alleanza della Dc con i partiti laici e il Psi di Bettino Craxi, con cui aveva una vera amicizia. I fatti poi si incaricarono di dimostrare che non era possibile».

Era consapevole che la stagione Dc volgeva al termine?

«Ricordo che mi disse: senza il proporzionale, la Dc è morta. E così andò. Del resto non sono mai stato d'accordo con Andreotti quando diceva che il potere logora chi non ce l'ha: il potere logora chi lo gestisce, e dopo 50 anni al potere una deriva anche 'morale' di quei partiti era fisiologicamente umana. Ma ripeto, la causa principale non fu la corruzione: fu la caduta del Muro e di quel discrimine politico ben sintetizzato da Montanelli nel suo turatevi il naso e votate Dc. Non c'era più il nemico sovietico, e anche la Dc si divise: c'era Rosy Bindi che pensava alla collaborazione con la sinistra, io che puntavo su quella con un centrodestra moderato. Ma entrambi prendevamo atto della fine del ruolo di perno della Dc».

Nel 1992 Forlani era il candidato Dc al Quirinale, e fu bocciato. Come la visse?

«Ricordo benissimo quel giorno: eravamo insieme nella sala del presidente del Consiglio a Montecitorio, a seguire lo spoglio. C'era anche Giuliano Amato. Capimmo quasi subito che mancavano i voti: gli andreottiani erano scatenati, alla fine ci furono 29 franchi tiratori. Arnaldo, nel silenzio generale, disse: me ne vado a casa a mangiare, e mi invitò a seguirlo. In macchina, lui davanti e io dietro, mi fece una tirata surreale sull'Inter, di cui era tifosissimo. A casa si mise a giocare col cane lupo in giardino. Gli dissi: domani ci riproviamo. Mi rispose: ma che dici, su, è finita e nella vita bisogna essere realisti. Domani dobbiamo trovare un altro candidato.

Poi il giorno dopo ci fu la strage di Capaci, e eleggemmo Scalfaro».

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