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Luigino fa la trottola fra Haftar e Serraj. Ma ormai l'Italia in Libia non tocca palla

Di Maio fa il ministro degli Esteri solo quando gli interessi italiani sono compromessi

Luigino fa la trottola fra Haftar e Serraj. Ma ormai l'Italia in Libia non tocca palla

In poche ore, ieri, Luigi Di Maio è rimbalzato dalla Tripoli di Fayez al Serraj alla Cirenaica del generale Khalifa Haftar. Alla fine, però è tornato a casa con un pugno di mosche. Il fallimento era scontato. Anche perché oltre a non aver nulla da offrire l'Italia giallo-rossa Di Maio non ha neppure gli strumenti per far pressione. E questo nella Libia «sirianizzata», terreno di gioco esclusivo per la Turchia di Recep Tayyp Erdogan e la Russia di Vladimir Putin, è ormai l'unica cosa che conta.

Del resto se ci fossero state altre soluzioni Emmanuel Macron e Angela Merkel non avrebbero certo regalato al nostro ministro degli Esteri l'investitura d'inviato dell'Unione Europea. Ma Francia e Germania sono anche loro fuori dai giochi. La Merkel è alle prese con l'organizzazione di una conferenza sulla Libia rinviata al prossimo anno, ma già condannata all'insuccesso. Il presidente francese, già alleato e protettore di Haftar, è invece stato sopravanzato da Emirati e Russia. Insomma sia Merkel, sia Macron, protagonisti cinque giorni fa di un vertice a Bruxelles con Giuseppe Conte, sono stati ben felici di scaricare su Di Maio la patata bollente di un'impossibile missione diplomatica. Ma dietro il doppio carpiato nel vuoto del nostro ministro ci sono anche i tre mesi di sonno alla Farnesina. Tre mesi durante i quali ha allegramente trascurato le sorti di un'ex colonia culla di interessi strategici come petrolio, gas e controllo dei flussi migratori. Su quell'imperdonabile assenza ha giocato Erdogan quando, il 27 novembre, ha spinto il premier libico Fayez Al Serraj a firmare il trattato di spartizione delle acque del Mediterraneo con cui ci ha tagliato fuori dal controllo dei pozzi di gas «off shore» della Libia e del resto dell'ex Mare Nostrum. Noi per tutta risposta abbiamo mandato la fregata Martinengo a pattugliare il mare di Cipro e difendere le prospezioni Eni. E in questo abbiamo guadagnato qualche punto con Haftar. In compenso ieri a Tripoli Di Maio si è ben guardato dal chiedere la revisione del trattato turco libico. Nell'incontro con l'omologo Ahmed Maitig s'è limitato a ribadire, come ripetuto da ormai otto mesi, che «la soluzione della crisi non può essere militare». Del resto battere i pugni sul tavolo a giochi fatti serviva a poco. Erdogan, a differenza di noi, può far pesare quelle forniture di droni, mezzi blindati e missili a guida laser indispensabili a Serraj per evitare di cadere sotto i colpi di Haftar.

Noi pur essendo l'unica potenza straniera ad avere un contingente di 300 militari in quel di Misurata non siamo stati in grado di articolare alcuna azione politica per rafforzare il nostro ruolo. E rischiamo che i nostri soldati, esposti alle bombe di Haftar, diventino un ulteriore handicap. In caso di attacco potremmo, infatti, soltanto ritirarli esibendo ancor più eloquentemente la nostra strutturale debolezza politica e militare. E a rendere ancor più inutile la trasferta di Di Maio s'è aggiunta la telefonata intercorsa, proprio ieri, tra un Erdogan e un Putin ormai indiscussi e incontrastati dioscuri della crisi libica. Una crisi che nei loro colloqui s'interseca con quella siriana trasformandosi in un'inestricabile e complesso terreno di scambio in cui c'è poco posto per altri interlocutori. Per questo forse era meglio attendere l'8 gennaio per muoversi. Quel giorno Erdogan e Putin s'incontreranno ad Ankara.

Solo dopo quell'incontro non solo Serraj ed Haftar, ma anche la piccola Italia di Di Maio e Giuseppe Conte capirà veramente di che morte deve morire.

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