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L'ultima lezione di Ricolfi: "I sondaggi sono inaffidabili"

Il sociologo si congeda dai suoi studenti di Torino: «Il male dell'Italia è l'eccesso di leggi e la produttività»

L'ultima lezione di Ricolfi: "I sondaggi sono inaffidabili"

Tre ore di lezione, una cascata di formule e algoritmi. Un quadro inquietante - o esaltante?- del moltissimo che c'è ancora da mettere a fuoco in Analisi dei dati, una disciplina giovane, nata solo nel 1901. Poi, quasi all'improvviso sbuca nella landa desolata dei sondaggi: «Nel 2018 tutti pensavano che Forza Italia avrebbe preso pi ù voti della Lega e invece è andata in un altro modo, nello stupore generale. Ma non c'è da meravigliarsi - incalza Luca Ricolfi rivolgendosi ai ragazzi - quella sul voto è una domanda imbarazzante e molti rispondono senza dire la verità». Cosi il professore, sempre ironico e tagliente, introduce la categoria della desiderabilità sociale e dopo mille distinguo sempre più sofisticati arriva a una conclusione tranchant. Come nemmeno un boscaiolo che abbatta i tronchi colossali del pregiudizio: «I sondaggi, tutti i sondaggi in Occidente, fanno schifo. I campioni non sono mai veramente rappresentativi e poi molto dipende dalle modalità con cui si raccolgono i pareri. L'intervista face to face, o telefonica, è molto meno affidabile di quella impersonale, via internet».

Un sorriso impertinente, poi bastano poche parole intinte nella sobrietà subalpina per far scendere il sipario su una lunga carriera accademica: «C'è molto lavoro da fare, buon lavoro».

L'ultima lezione sulla soglia dei settant'anni finisce con un lungo applauso e le strette di mano dei colleghi del corso di laurea in Psicologia, venuti ad ascoltare quel lungo e suggestivo excursus sul futuro dell'analisi dei dati. Ma Luca Ricolfi, studioso sempre controcorrente, noto al grande pubblico per via dei suoi saggi fuori dal coro - l'ultimo è La società signorile di massa, pubblicato da La nave di Teseo - e le apparizioni televisive non va in panchina. Ci sono troppi stereotipi, troppi luoghi comuni, troppi tabù in circolazione. Specialmente a sinistra, la sua casa dove però si è sempre trovato scomodo. Tanto da diventare un'icona dall'altra parte dell'emiciclo per le sue analisi spietate: per esempio sul rapporto fra efficienze e sprechi nelle regioni virtuose del Nord, tartassate dal fisco per aiutare le regioni più arretrate e spendaccione del Sud; o sul legame, coperto dall'ipocrisia del politicamente corretto, fra immigrazione e criminalità. Lui va avanti per la sua strada, senza la paura di scandalizzare o di scontentare un po' tutti. Cosi, un minuto dopo la campanella, sferra un paio di rasoiate. Al sistema scolastico: «Nel corso che ho tenuto quest'anno ho svolto esattamente la metà del programma di venticinque anni fa. Gli studenti non sono allenati e più di tanto non possono recepire perché la scuola superiore è quella che è. Sulla carta i programmi sarebbero anche buoni, ma poi c'è libertà di non studio e ci ferma».

Lui però no: «In pensione mi dedicherò alla produttività, il grande dramma dell'Italia da vent'anni a questa parte. Siamo immobili e continuiamo a perdere punti rispetto agli altri paesi europei. È una malattia che i governi non hanno saputo affrontare. Quello gialloverde ha fatto solo una politica assistenziale e il Conte 2 è esattamente sulla stessa linea».

Ma che cosa servirebbe a questa Italia imballata e in decadenza ? «Io credo - è la risposta fulminante - che la causa più importante sia l'eccesso legislativo. L'Europa ci complica la vita con mille norme e noi ce la ricomplichiamo con un ulteriore diluvio di commi, paragrafi, adempimenti e procedure. Ma, naturalmente, prima di emettere la mia sentenza devo studiare».

Un primo verdetto potrebbe arrivare già nei prossimi mesi: «Ho in mente sei o sette libri da scrivere, ma penso che il prossimo sarà un saggio sul politicamente corretto. Pochi giorni fa Federico Rampini ha definito l'America una collezione di minoranze suscettibili. Ecco, siamo alla paralisi della comunicazione: che si parli dei gay o del clima tutti ripetono lo stesso blabla e se esci dal solco si alzano grida e strepiti. Siamo alla censura delle critiche, naturalmente nel nome della libertà».

Un cortocircuito che Ricolfi intende denunciare: il professore saluta, il fustigatore promette di non abbandonarci.

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