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M5s-Pd già nei guai: la candidata di Di Maio pensa di rinunciare

In Umbria Di Maolo si sfila, il nome torna un rebus. Ma c'è accordo sull'intesa: si farà

M5s-Pd già nei guai: la candidata di Di Maio pensa di rinunciare

A meno di una settimana dalla presentazione delle liste, la candidatura comune Pd-Cinque Stelle per l'Umbria ancora non c'è.

Francesca Di Maolo, avvocato vicina al mondo cattolico e presidente dell'istituto Serafico di Assisi, era stata indicata come possibile nome giallorosso per la presidenza della Regione, che venerdì sera ha ricevuto la liturgica benedizione della solita piattaforma Rousseau, usata dal partito Casaleggio per far finta di consegnare alle masse virtuali del web la responsabilità delle proprie scelte.

Ma già ieri pomeriggio il tam tam umbro diceva che l'avvocato Di Maolo, pur molto onorata della proposta su cui mantiene ancora la riserva, era assai incerta e meditava di sfilarsi. Sulla base della giusta constatazione che fare il governatore di regione è un mestiere difficile, tutto politico ed amministrativo, per il quale bisogna avere gli skill che solo una seria gavetta politica può creare: non è professione per «civici» dilettanti, insomma. Sarebbe un «no, grazie» a Di Maio, insomma, che giovedì sera la aveva incontrata per chiederle la disponibilità. L'accordo grillini-dem tornerebbe così in alto mare, anche se dall'uno e dall'altro fronte si assicura che «ci sono altri nomi» e che c'è comunque «la volontà di chiudere» un'intesa elettorale che potrebbe fare da laboratorio ad altre. Anche se il leader Pd Nicola Zingaretti avverte: «Nessun automatismo: ogni Regione dovrà decidere sulla base delle proprie leadership, dei propri contenuti, ma c'è una vocazione unitaria a provarci, per un futuro del Paese non fondato sull'odio, ma sulla crescita». Ma secondo i big del Pd che seguono la partita, c'è ancora la possibilità di convincere la Di Maolo.

In attesa di risolvere il rebus regionale, il segretario dem ha iniziato la sua controffensiva anti-scissione: prima l'operazione simpatia, quando due sere fa si è fatto fotografare col celebre sorello Luca, alias Montalbano. Quindi il lavorio dietro le quinte per impedire molti passaggi al gruppo renziano, coronato dall'annuncio, con grandi fanfare, che la ex alfaniana ministra della Salute Beatrice Lorenzin, corteggiata da Renzi, aveva invece deciso di entrare nel Pd. Ieri, intervistato da Sky Tg24, Zingaretti ha ricostruito le ultime vicende raccontando l'addio di Matteo Renzi come quello di un teenager un po' gaglioffo, che non fa neppure la fatica di telefonare alla fidanzata per lasciarla: «Ho ricevuto un messaggio WhatsApp quando la decisione era stata già presa», dice. A differenza di Conte, cui l'ex premier ha telefonato e che dice di aver «apprezzato la cortesia».

«Ovviamente - aggiunge perfido Zingaretti - non me l'ha detto prima della nomina dei due sottosegretari e delle ministre Bellanova e Bonetti». Quel che «ha dato a tutti fastidio», spiega, è che la scissione sia stata decisa «il giorno stesso in cui si votava un governo: così, a freddo». Confida il suo dispiacere, dice che la rottura è stata «un gravissimo errore, perché dividersi è sempre un errore». Debora Serracchiani, rimasta nel Pd, avverte: «Attenti, perché la forza d'urto della scissione non è ancora esaurita».

I primi sondaggi (guardati con sospetto dai renziani, convinti che siano più che altro un modo per scoraggiare altri aspiranti scissionisti) danno un eventuale partito renziano molto basso: per Pagnoncelli al 4,4%, per Tecnè al 3,6%.

Numeri da partitino modello Pierferdinando Casini, ma di scarsa attendibilità - fanno notare da Italia Viva - visto che è difficile fare rilevazioni serie «a quattro giorni dall'annuncio dell'uscita dal Pd: ma che sondaggio è?».

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