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La "macchina del fango"? Non esiste, Porro assolto

Il vicedirettore de «il Giornale» prosciolto dall'accusa di tentata violenza privata contro la Marcegaglia: "Il fatto non sussiste"

La "macchina del fango"? Non esiste, Porro assolto

Doveva essere il processo che smascherava le malefatte del Giornale, e portava sul banco degli imputati la famigerata «macchina del fango». Invece l'inchiesta della Procura di Napoli contro Nicola Porro, vicedirettore del quotidiano milanese, si sgonfia come un soufflè mal riuscito ieri pomeriggio, quando il tribunale di Roma pronuncia la sentenza: assoluzione con formula piena, perché «il fatto non sussiste». «Sono pazzo di gioia, ho avuto grandi magistrati e grandi avvocati», commenta Porro. La «violenza privata» che Porro avrebbe messo in atto nei confronti di Emma Marcegaglia quando era presidente di Confindustria esisteva solo nelle teste di Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli, i pm partenopei che nel 2010 spedirono i carabinieri a perquisire le case e gli uffici di Porro e del direttore Alessandro Sallusti.

Tutto nasceva da alcuni sms inviati il 16 settembre 2009 da Porro a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia, e intercettati dalla Procura di Napoli nell'ambito di un'altra inchiesta. «Domani super pezzo giudiziario sugli affaire della family Marcegaglia», «spostati i segugi da Montecarlo a Mantova». Messaggini che Porro ha spiegato come il «cazzeggio» consueto tra giornalisti e addetti stampa: e che invece per la Procura di Napoli erano nientemeno che il preannuncio di una campagna contro la Marcegaglia «in stile Montecarlo», ovvero l'inchiesta condotta dal Giornale sulla casa in Costa Azzurra dell'allora presidente della Camera, Gianfranco Fini.

Quali fossero i moventi del presunto assalto alla Marcegaglia non era chiarissimo: in un primo momento la Procura aveva sostenuto che si trattasse della ritorsione per la svolta antigovernativa impressa a Confindustria dalla imprenditrice mantovana; poi l'impianto era stato riveduto al ribasso, e Porro era stato accusato di avere lanciato le minacce con l'unico obiettivo di costringere la Marcegaglia a rilasciare un'intervista.

Nel frattempo, però, l'indagine si era mossa in grande stile: era stato convocato e interrogato il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, colpevole di avere ricevuto una telefonata della Marcegaglia e di averla tranquillizzata; veniva dato per imminente il coinvolgimento di Vittorio Feltri, all'epoca direttore editoriale del quotidiano; intanto il procuratore della Repubblica di Napoli, Giandomenico Lepore, rivendicava l'operato dei suoi pm e il suo ruolo di paladino della «buona stampa»: «Non è in discussione il diritto di cronaca, anzi noi ci siamo mossi anche per tutelare chi esercita correttamente questa professione».

Passata l'eco della grancassa iniziale, l'inchiesta ha iniziato a girovagare: prima è stata spostata a Milano, e qui la Procura ha archiviato la posizione di Sallusti; poi è approdata a Roma, dove l'accusa per Porro è stata derubricata da violenza privata a tentata violenza. Nel processo all'attuale conduttore di Matrix, le testimonianze sfilate in aula hanno dimostrato quello che forse fin dall'inizio i pm napoletani potevano accertare: nessuna inchiesta sulla Marcegaglia era mai stata in programma, e i messaggini di Porro a Arpisella erano davvero quel «cazzeggio» di cui si nutre il rapporto tra cronista e fonte. Al punto che anche il pm, alla fine, ha chiesto l'assoluzione di Porro per insufficienza di prove.

Il giudice va ancora più in là, e per il giornalista - difeso dai legali Valentina Ramella e Guido Alleva - arriva l'assoluzione con formula piena.

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