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Di Maio nemico del lavoro: "Pronta la legge per i rider"

Divieto di cottimo e contributi Inail rendono l'impiego meno conveniente. M5s produttori di disoccupazione

Di Maio nemico del lavoro: "Pronta la legge per i rider"

Non c'è niente da fare. Luigi Di Maio proprio non riesce a considerare il lavoro come un normale rapporto contrattuale. Per il capo politico M5s è sempre qualcosa che farima con «sfruttamento». Fortunatamente (per le imprese) l'inefficienza del ministro dello Sviluppo economico ha impedito che potesse combinare altri danni rispetto a quelli che ha già procurato.

Ieri, infatti, Di Maio è tornato alla carica sulla nuova disciplina che dovrebbe regolare i rapporti di lavoro dei rider, i fattorini che effettuano le consegne per conto delle piattaforme Internet di prenotazione dei pasti. «La norma sui rider è pronta: sarà inserita nella legge sul salario minimo che è in discussione in questi giorni al Senato», ha scritto ieri su Facebook aggiungendo che «se potremo, proveremo a farla diventare legge anche prima, inserendola nella fase di conversione del decreto Crescita, ma su questo ci sarà bisogno dell'autorizzazione dei presidenti delle Camere». Un chiaro riferimento ai precedenti del provvedimento: tanto nella legge di Bilancio quanto nel decretone di quota 100 la leggina per i rider era stata espunta per la mancanza di omogeneità con i testi. Lo stesso potrebbe accadere con il decreto Crescita visto che il presidente della Camera Fico è sempre stato intransigente.

Il problema, tuttavia, è il merito del testo. «La norma che stiamo per approvare - ha aggiunto il vicepremier - ha l'obiettivo di tutelare i lavoratori del terzo millennio che avranno finalmente più diritti e tutele tra cui: copertura Inail per gli infortuni, migliore contribuzione Inps che supera la gestione separata e divieto di retribuzione a cottimo». In pratica, l'impiego numero uno della gig economy (cioè l'economia dei lavoretti) viene equiparato a un rapporto parasubordinato e, quindi, reso molto più costoso. In questo modo si penalizza un settore che pure aveva offerto delle opportunità a molti giovani. Chiaramente in un Paese nel quale la disoccupazione giovanile è ancora pericolosamente vicina al 33% e il tasso complessivo si attesta al 10,7% anche questi «lavoretti» vengono considerati vere occupazioni più che diversivi e questo ha comportato il crescere delle proteste sobillate da forme più o meno primitive di sindacalizzazione. D'altronde, anche la magistratura con una sentenza del Tribunale di Torino ha incoraggiato il legislatore a percorrere questa strada nonostante sul tema non vi sia accordo tra tutti i rappresentanti dei «lavoratori».

Tutto il percorso di governo dei Cinque stelle è stato caratterizzato da una costante avversione nei confronti di tutte le forme di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Si è iniziato l'anno scorso con il decreto Dignità che ha ridotto da 3 a 2 i rinnovi dei contratti a tempo determinato limitandone la durata da 36 a 24 mesi. In questo modo sono stati scoraggiato coloro che hanno fatto ricorso a queste forme contrattuali «obbligandoli» di fatto a terminare i rapporti alla loro conclusione o ad assumere forzatamente manodopera.

L'opera è proseguita con la legge di Bilancio e con il successivo decretone che ha introdotto il reddito di cittadinanza. Come ha scritto Standard & Poor's nella nota di venerdì scorso, un sussidio da 780 euro al mese «potrebbe creare pressioni al rialzo sui salari e scoraggiare coloro che sono in cerca di un lavoro». Analogamente, il ddl sul salario minimo cui Di Maio faceva riferimento ieri è un altro ostacolo all'occupabilità. L'Istat aveva spiegato che l'introduzione di una retribuzione minima di 9 euro lordi l'ora coinvolgerebbe il 21% dei lavoratori dipendenti con un aumento stimato del monte salari complessivo di 3,2 miliardi.

Un modo come un altro per abbassare una produttività del lavoro già molto zoppicante.

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