Cronache

Le mamme di 'ndrangheta fanno togliere i figli ai boss

In Calabria circa 30 ragazzi sono stati allontanati dalla famiglia mafiosa. A chiederlo ai giudici le madri, per salvarli da un destino criminale segnato

Le mamme di 'ndrangheta fanno togliere i figli ai boss

Prima una isolata, una paccia, pazza. Poi un'altra, anche lei fatta passare per «pazza». La terza di lì a poco. Infine, quando si sono contate, all'inizio dell'anno, hanno scoperto di essere già 25, tra la Piana e la Locride. Venticinque mogli di ndranghetisti, madri di una trentina di ragazzi non ancora maggiorenni che in capo a tre anni (dal 2012) hanno fatto tutte la stessa scelta rivoluzionaria: allontanare i figli dalla famiglia prima che fossero «arruolati»; sottrarli al destino dei padri (in carcere, o morti ammazzati) sfilandoli dal «contesto» e mettendoli nelle mani della Giustizia: quella dei giudici e dei Tribunali: i «nemici», visti col cannocchiale delle ndrine. Giudici ai quali le mamme di ndrangheta, sfidando l'ira dei mariti e la cultura omertosa dell'ambiente in cui esse stesse sono diventate grandi, hanno chiesto provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale. Non una confisca dei figli, avviati a una deportazione coattiva, ma un'opportunità. Rinunciare temporaneamente ai figli per allontanarli dall'area del contagio, regalandogli un destino formidabile: quello di diventare ragazzi normali, senza virgolette; ragazzi che studiano o lavorano, con un avvenire davanti, non dietro le spalle.

Sono andate a chiedere aiuto di nascosto, da sole, sfidando quello che da queste parti, fatalisticamente, si chiama «destino». Madri contro le ndrine. Una roba mai vista. Una crepa in un mondo che sembrava monolitico, impenetrabile, ma che si allarga silenziosamente seminando il più inaudito dei dubbi all'interno di un tessuto sociale che dubbi non ne aveva, sul fatto che «valesse la pena». Un sovvertimento di valori in piena regola, come una brutta scossa di terremoto. Col carcere non più visto come una «medaglia al valore» di cui andare fieri; ma come la più colossale delle fregature, come può esserlo solo la perdita della libertà. Merito della credibilità che si è saputo conquistare Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria dal 2011. E dei risultati che, anno dopo anno, sono arrivati. La maggior parte della trentina di ragazzi affidati al Tribunale sono stati allontanati dalla Calabria. E sempre più spesso, scrive Eleonora Delfino sulla Gazzetta del Sud, chiedono un sostegno per continuare a vivere lontano. Si diffonde la consapevolezza virtuosa, condivisa, di un mondo che ignora la paura di cadere in un'imboscata della cosca rivale, o di imbattersi nella tagliola dei carabinieri. Molti continuano o hanno ripreso a studiare; alcuni hanno trovato impiego in quei lavori socialmente utili che talora si rivelano davvero utili, socialmente. Frequentano associazioni di volontariato che promuovono la legalità, lavorano di concerto con psicologi e pedagogisti, scoprono infine il mondo degli «altri», di chi vive normalmente del suo lavoro, di chi progetta sui libri un futuro lontano dalle scorciatoie che la famiglia aveva apparecchiato per loro.

Una buona notizia dal Sud, finalmente. Anche se il lavoro svolto fin qui dal Tribunale dei minori potrebbe essere messo in forse da una riforma, già votata dalla Camera e ora in discussione al Senato, che riduce l'autonomia di gestione del Tribunale per i minori, accorpandolo e trasformandolo in un'appendice del Tribunale ordinario. Non più una struttura a sé stante, come è stato finora, ma una «sezione specializzata per la persona, la famiglia e i minori».

Sembra solo una questione semantica, lessicale, vero? Ma il sospetto che prevalga la perversa logica aziendale della spending review è più che concreto.

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