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Il manganello dei poteri forti

Fin dai tempi dell'Economist con la copertina dedicata al Berlusconi "unfit", cioè inadatto a governare, siamo abituati al manganello mediatico che arriva da fuori porta

Il manganello dei poteri forti

Fin dai tempi dell'Economist con la copertina dedicata al Berlusconi «unfit», cioè inadatto a governare, siamo abituati al manganello mediatico che arriva da fuori porta. Col passare degli anni, e ne sono trascorsi più di venti da allora, la tecnica è stata affinata: ora la stampa estera usa il randello preventivo con finalità di avvertimento. C'è un'Italia che piace oltralpe, e non è necessariamente quella pizza, «o sole mio, mandolino e spaghetti», alla bisogna conditi con una bella P38 (Der Spiegel, nel giurassico '77): meglio il Belpaese infilato nell'austero loden della sobrietà montiana, con lo sdoganamento del «ce lo chiede l'Europa». Imperativo, seppur declinato diversamente dal sorriso algido di Mario Draghi, da cui non siamo più usciti: trattasi sempre di «fare i compiti a casa», come da prescrizione dei maestrini con la penna rossa di Bruxelles.

Così, ora che dalla finestra di Palazzo Chigi rischia di stagliarsi la sagoma della Donna Nera in compagnia del populista Matteo e dell'inappropriato Silvio, ecco il Financial Times prefigurare disgrazie e sciagure, quasi non bastassero quelle che viviamo da oltre un biennio. A dieci anni esatti di distanza dal «Whatever it takes», Supermario ha infilato la porta d'uscita e perciò il foglio salmonato, megafono della City e dei poteri forti, è in gramaglie. «Après lui, le déluge», traducibile nel più prosaico «piove, governo ladro». Perché il timore del FT è che senza più l'ex Bce venga messo «a repentaglio lo slancio delle riforme e la disciplina fiscale», cioè gli impegni presi dall'Italia in cambio dei fondi del Next Generation Ue. Ovvero, «la riduzione della burocrazia, il rafforzamento della concorrenza in settori che vanno dall'energia ai trasporti e il rafforzamento della pubblica amministrazione». Un pacchetto necessario, ricorda il quotidiano inglese in sintonia con l'Fmi («Speriamo che le riforme siano fatte»), «per aumentare le prospettive di crescita a lungo termine e garantire la sostenibilità del debito pubblico italiano, ora circa il 150% del Pil». Insomma, anche se risulta difficile capire quali incagli potrebbero incontrare queste riforme con un governo di centro-destra (tenuto conto dei nodi legati a tassisti e balneari), il Financial Times la mette giù dura: se l'Italia sgarra, addio fondi. Con un effetto valanga: «La fragile economia italiana non sarebbe l'unica vittima», poiché a venire travolti sarebbero anche i sostenitori del progetto europeo del debito comune. «Se il piano fallisse in Italia, aumenterebbe lo scetticismo nelle capitali del Nord Europa che sono profondamente sospettose dell'emissione di debito congiunto». Talmente scettiche da aver affossato sul nascere l'ipotesi di un Recovery Fund di guerra.

Non ci resta, dunque, che l'obbedienza fiscale. Del resto è ciò che ci chiede la Bce col suo scudo anti-spread.

Anche se è inutile: quando hai i conti a posto non ti serve, perché lo spread non ha motivo di surriscaldarsi; se li hai in disordine, sei sotto tiro e non puoi beneficiare dello scudo, la cui attivazione richiede una fedina contabile quasi immacolata.

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