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Metodo Quirinale, il premier esulta ma arriva il conto

Renzi si gode il successo ma la pace è appesa a un filo. E ora deve saldare i debiti con minoranza Pd e Ncd

Metodo Quirinale, il premier esulta ma arriva il conto

Roma - Matteo come Michelangelo, fa i «capolavori». Matteo come Mourinho, fa il triplete . Matteo uno e trino, fa le pentole e pure i coperchi.

Nell'agiografia imperante dei giorni di gloria la figura di Renzi giganteggia più che mai, rilanciata dagli aedi del conformismo mediatico. Nerone petroliniano cui ormai va stretto pure il «bravo, grazie!», il premier scorrazza su un campo del quale sembra unico, forse autistico giocatore che difende, manovra, attacca. Spesso interpretando anche la squadra avversaria. Chi potrà mai fermarlo? All'indomani dell'operazione-Mattarella, arduo immaginare qualsiasi argine. A meno che, come storia suggerisce, non sia proprio Matteo il peggior nemico di se stesso.

Novello Lehman Brothers , il segretario del Pd stimola linee di credito e bolle politiche: il problema si porrà semmai nel futuro, quando qualcuno penserà di passare all'incasso. «Visto che oggi festeggiamo l'unità del Pd, evento tipo la cometa di Halley che passa ogni tot decenni, almeno per una settimana godiamocela senza litigare», questo il verbo del premier affidato ai giornali di corte. Ma nei resoconti delle proprie gesta è già chiaro l'intento di recuperare vecchi e nuovi investitori sulle prossime imprese. «Adesso avete capito cos'è il patto del Nazareno, sul quale s'è fatta troppa mitologia: fossero vere tutte le nefandezze dei talk show sull'accordo con Berlusconi, mi dovrebbero arrestare». Nell'accordo, dice Renzi, «c'erano e ci restano la riforma del Senato, legge elettorale e poteri allo Stato rispetto alle regioni. Non ci credono? Non posso farci niente: avranno altre sorprese, come quella di Mattarella». Il vangelo secondo Matteo recita anche che «Alfano non l'ho strigliato, è Ncd che ha fatto confusione», mentre «Berlusconi è stato mal consigliato e troppo pressato, non solo da Fitto». Ora dunque si riprende tutto come prima, «solo più sereni»: nessun rimpasto di governo, che vola verso il 2018, riforme «più vicine e non più lontane», Italicum in dirittura finale (lo ribadirà la Boschi), il Jobs Act a un passo e così via.

Uno scurdammoce 'o passato pietoso e totale che vorrebbe ricucire gli strappi con gli stessi fili. Considerando la personalità non divisiva spedita sul Colle, potrà pure essere, se non fosse che, nel «metodo del furbo + furbo », c'è chi potrebbe (vorrebbe) passare all'incasso. In maniera assai realistica, Nichi Vendola è stato il primo a capire che dalla maggioranza raccolta su Mattarella non ci si potesse attendere un cambio di verso anche per il governo. Ieri il leader di Sel ha ribadito che gli va bene così, gli basta aver eletto «senza alcuno scambio» una personalità «non inquinata dal Nazareno: il rapporto con il governo non cambia». Eppure, al di là delle buone intenzioni di Forza Italia di portare a termine riforma istituzionale e Italicum , la sinistra interna al Pd già si presenta alla cassa. Bersani chiede di modificare la norma sui capilista bloccati (cosa che richiederebbe un nuovo passaggio al Senato, che la Boschi ieri escludeva e il premier ha liquidato con un «si fa confusione»). Il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, vorrebbe invece che il «metodo Quirinale non resti uno spot» ma venga applicato alle riforme, in particolare al Jobs Act che entro il 12 febbraio dovrà essere licenziato in commissione: un annacquamento delle norme sul lavoro, come chiede la sinistra, creerebbe tensioni nel governo. Il contrario, nuove divisioni nel partito. Così sui decreti attuativi della delega fiscale (in Cdm il 20 febbraio), sulla delega sulla Pa e sul decreto di riforma delle Popolari.

La pax renziana è dunque un filo teso sull'abisso: basta saperlo, mentre si canta l'epinicio del premier.

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