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Militari e agenti gay, cade il tabù E anche i trans ora vestono la divisa

La storia di Stefania, unica poliziotta d'Italia che ha cambiato sesso

Militari e agenti gay, cade il tabù E anche i trans ora vestono la divisa

Milano - Certo, non è stato facile. Quando la transizione era compiuta per il suo corpo ma non per l'anagrafe, alla poliziotta Stefania Pecchini è toccato presentarsi in tribunale per testimoniare: e quando declinava generalità da uomo, il giudice restava basito. «Ora - racconta - sono la prima e per ora unica poliziotta d'Italia a avere cambiato sesso. Spero di avere aperto le porte a tante altre persone, di avere dato il coraggio che spesso manca».

Fino a qualche anno fa aveva un nome da maschio, una moglie, due figli, una vita apparentemente «normale». Oggi è bionda, snella, ed è fidanzata con una infermiera più giovane di lei. E tutto questo senza mai lasciare il suo posto nella Polizia locale, neanche nella fase della mutazione, «e durante i turni di pattuglia raccontavo ai miei colleghi a che punto ero, che farmaco stavo prendendo, i passaggi che mi aspettavano».

Oggi Stefania dirige il pronto intervento della Polizia locale a San Donato. Ha potuto continuare a fare il suo lavoro perché è alle dipendenze di un Comune. Se avesse lavorato nella polizia di Stato o nei carabinieri, la sua «disporia» sarebbe stata considerata una psicologia psichiatrica e l'avrebbero allontanata dal servizio. Ma è una arretratezza comune alla gran parte dei Paesi, visto che attualmente solo Usa, Canada e Israele accettano i transessuali nelle loro forze armate.

Ben diverso lo scenario per i diritti dei gay, ormai sdoganati e accolti negli eserciti di polizia di quasi tutto il mondo libero. Ieri a Milano Polis aperta, l'organizzazione dei militari e poliziotti Lgbt, in un convegno a Milano ha portato i dati della evoluzione - assai rapida , a dire il vero - dei comportamenti istituzionali di fronte al coming out, al disvelamento degli omosessuali, oggi pienamente accolti e quasi incentivati sia in Italia che all'estero. Magari col rischio che si crei una sorta di riserva ipertutelata, come lo fu a suo tempo per le prime donne in divisa: «Il rischio c'è - dice la Pecchini - non bisogna creare un'altra etichetta, siamo persone e basta, se ci andiamo a chiudere in un cerchio si crea l'effetto contrario».

Per la prima volta, un vigile gay di Milano, Fabrizio Caiazza, ottiene il permesso di parlare della sua scelta sessuale con indosso la divisa; il comandante dei vigili di Torino ribadisce la linea delle «porte aperte»; il portavoce anti-discriminazione del Viminale idem. Insomma («anche se il chiacchiericcio e le battute ci saranno sempre», dice Stefania) l'ingresso dei gay negli apparati armati dello Stato è cosa fatta.

Almeno qui, nel vituperato Occidente: perché poi arriva Amir Ohana, deputato per il Likud (centrodestra) alla Knesset israeliana, per dodici anni soldato dello Shin Bet e omosessuale dichiarato, a ricordare come Israele sia l'unico paese del Medio Oriente dove i gay in divisa godono doveri e diritti di maschi e femmine. «Ma fuori dai nostri confini - dice Ohana - ci sono altri paesi dove dichiararsi gay comporta l'arresto, la condanna, l'impiccagione». Tra gli ebrei d'Israele, a non digerire le aperture ai gay è solo una minoranza ultra-ortodossa, spiega il deputato, «e i Gay Pride si tengono abitualmente a Gerusalemme e in altre città. Ma non esiste una sola città araba dove si sia tenuto un Gay Pride».

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