Mondo

La missione in Niger è il primo passo di una strategia globale

La mossa di Gentiloni rilancia il ruolo dell'Italia nello scacchiere nordafricano

La missione in Niger è il primo passo di una strategia globale

Il meglio di se Gentiloni ce lo regala alla fine. Se l'archiviazione dello «ius soli» segnala un rinsavimento benefico ma in fondo forzato, il progetto di missione militare in Niger apre le porte ad una strategia di lungo respiro importantissima non solo per il contenimento delle immigrazione irregolare e del terrorismo, ma anche per il rilancio del ruolo italiano nel Nord Africa.

La missione annunciata dal premier Paolo Gentiloni, sottoscritta dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, ma ispirata da quello degli interni Marco Minniti, merita sicuramente di esser fatta propria dai vincitori dalle prossime elezioni. Per capirne l'importanza basta esaminare una carta geografica e fare un salto all'indietro di due anni. Allora i migranti partiti da Nigeria, Ghana, Togo, Cameron, Mali o Burkina Faso vengono dirottati dai trafficanti verso Agadez, l'antica città carovaniera alle porte del deserto che porta verso il confine settentrionale con la Libia. Da lì partono colonne di autobus e camion scortate da unità militari del Niger ben felici di mettersi al servizio dei trafficanti in cambio di pochi dollari. A metter fine all'andazzo contribuisce, a metà 2016, un accordo con l'Unione Europea che offre al Niger seicento milioni di euro. L'esercito del Niger si trasforma così da complice a nemico dei trafficanti, ma questo non ferma la transumanza che si sposta dalle piste principali a quelle periferiche. In quest'involuzione il flusso si fa meno intenso, ma assai più insidioso. Per sfuggire all'esercito i trafficanti si spostano sulle stesse piste usate da stato islamico e gruppi jihadisti per muovere armi, militanti e droga. A dar la caccia a jihadisti e terroristi - con l'ausilio di unità selezionate del Niger - ci pensano 800 militari americani basati ad Agadez e le forze speciali di Parigi, parte della missione Barkhane, insediate nell'avamposto di Madama, cento chilometri a sud del confine libico. Impegnati a bloccare da una parte i transiti di armi dalla Libia verso Mali e Nigeria e, dall'altra, il passaggio di militanti in direzione opposta francesi e americani non si curano dei migranti in movimento verso la Libia. Quell'indifferenza diventa esplicito sgarbo la scorsa estate quando Emmanuel Macron invita a Parigi il generale Haftar nel tentativo di ridimensionare il nostro ruolo in Libia. A quello sgarbo Minniti risponde organizzando una cabina di regia per il controllo delle rotte dell'immigrazione che comprende Niger, Ciad e Mali, ovvero tre capisaldi dell'influenza francese in Africa. Da lì nasce l'idea di una missione militare italiana con un duplice obiettivo militare e politico- strategico. Il primo è garantire maggiori controlli sul traffico di uomini contenendo i flussi verso la Libia. Il secondo è inserire l'Italia in quel fronte per la lotta al terrorismo essenziale per difendere la stabilità di paesi come il Niger, ma anche per garantirsi autorevolezza strategica e politica. La missione è, ovviamente, tutt'altro che facile ed agevole. Se addestrare l'esercito del Niger e guidarlo sulle rotte dei trafficanti sarà complesso, ma non troppo rischioso, la caccia a convogli e carovane dell'Isis e di Al Qaida in movimento nel deserto sarà assai più insidiosa. Lo sanno bene gli americani che ad ottobre hanno perso quattro uomini in un'imboscata dello Stato Islamico nella zona al confine del Mali.

A rischi e oneri militari sono però connessi eventuali onori politico strategici. Condurre una missione chiave per la lotta al terrorismo jihadista al fianco degli americani nel cuore di una semi-colonia francese assicura all'Italia un ruolo importante in uno scacchiere nord africano fondamentale per il controllo dei flussi diretti verso la rotta mediterranea. E le offre più spazio di manovra in una Libia dove la Francia insidia i nostri interessi nazionali.

Il problema vero, anche stavolta, non sarà la qualità dei nostri militari - dimostratisi all'altezza di missioni assai più rischiose in Afghanistan ed Iraq - ma quella di una classe politica spesso incapace di mettere a frutto politicamente il prestigio garantitoci sul terreno dai nostri soldati.

Commenti