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Quella multa all'«Espresso» ferma da quasi quattro anni

Il gruppo ha fatto ricorso contro la condanna al pagamento di 225 milioni di euro per elusione fiscale. Ma il procedimento giace dal 2012 nei faldoni della Cassazione

Quella multa all'«Espresso» ferma da quasi quattro anni

Tre anni e mezzo non bastano. È ancora lì fermo, nei faldoni della Cassazione, un fascicolo che riguarda il gruppo Espresso di De Benedetti. I tempi biblici della giustizia italiana. Un vantaggio però c'è. Insieme al giudizio, è congelato anche il pagamento che la Commissione Tributaria regionale di Roma ha inflitto all'Ingegnere nel maggio 2012: 225 milioni di euro, più 500mila euro di spese processuali. Una sonora mazzata. «Di solito ci vogliono tre o quattro anni, la Cassazione ha tempi molto lunghi» ci aveva spiegato la professoressa Livia Salvini, legale del gruppo Espresso. In effetti siamo quasi a quattro e ancora si attende la sentenza, dopo il ricorso di De Benedetti. Ma come nasce quella condanna al gruppo Espresso? Per rispondere bisogna andare indietro nel tempo.

La cifra monstre, i 225 milioni di euro, corrisponde infatti alle tasse non pagate dal gruppo, secondo i giudici tributari, nel lontano 1991 all'epoca cioè della fusione dell'editoriale La Repubblica in vista della sua quotazione in Borsa. Dopo un accertamento dell'Agenzia delle Entrate e un lungo contenzioso (tra ricorsi e controricorsi) rinviato alla fine alla Commissione Tributaria di Roma, viene accertato che il gruppo ha eluso il pagamento delle imposte su plusvalenze realizzate per una cifra pari a 454 miliardi di lire, cui si aggiungono 14 miliardi di lire dichiarati all'epoca come costi deducibili ma non riconosciuti tali dal Fisco. Il pagamento della sanzione, come detto, viene però subito congelato perché un'altra sezione della Commissione tributaria accoglie la richiesta di sospensione avanzata dall'Espresso.Il gruppo di De Benedetti avrebbe insomma ottenuto un enorme vantaggio fiscale da una serie di operazioni societarie, realizzando un'elusione fiscale. Un illecito tributario, la questione penale si è infatti risolta anni fa con l'assoluzione di tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste».

Ma il gruppo contesta la legittimità anche della condanna tributaria, in modo anche duro. Il comunicato rilasciato subito dopo la sentenza del 2012 lamenta infatti che «i ricorsi erano stati accolti in due precedenti gradi di giudizio», perciò «il Gruppo ritiene la sentenza manifestamente infondata oltreché palesemente illegittima sotto numerosi aspetti di rito e di merito». Più dettagliata il legale del gruppo in questo procedimento, l'avvocato Salvini: «La sentenza si iscrive nel filone giurisprudenziale che rivendica all'Agenzia delle Entrate e ai giudici il potere di sindacare le scelte economiche e di strategia societaria» di un'azienda. Il giudice, insomma, ha voluto riconoscere un illecito in una operazione societaria che comportava semplicemente un vantaggio fiscale per l'Espresso, vedendoci una forma di evasione fiscale. La difesa perciò parla di «abnormità di pronunce che pretendono di disconoscere i vantaggi fiscali». Curiosamente lo stesso rilievo che gli avvocati di Silvio Berlusconi hanno opposto sulla vicenda dei diritti Mediaset, finita però con la condanna della Cassazione (e in tempi brevissimi, tre mesi dopo l'Appello, con la convocazione di una apposita sezione feriale della Corte ad agosto).

Ma prosegue la difesa di De Benedetti: «Né è stato adeguatamente considerato il fatto che le operazioni contestate sono state programmate nel 1989, prima dunque che fosse emanata la prima norma antielusiva applicata dalla Commissione, risalente al 1990». Insomma se elusione fiscale dev'essere, la legge ancora non c'era. «Già solo da tale ultima circostanza emerge che la progettazione e la realizzazione dell'operazione di quotazione in borsa era stata fatta nel pieno rispetto delle norme vigenti. Alla luce di ciò - conclude - sembra difficilmente giustificabile sia l'applicazione delle sanzioni amministrative, sia l'assolutamente inusuale condanna alle spese processuali nella misura di 500.000 euro». Cifre in effetti enormi.

Ma per ora, e da tre anni e mezzo, congelate nei freezer della Suprema corte.

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