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Dal «New York Times» nuove accuse all'Italia: il governo sapeva tutto

Il quotidiano Usa: la Casa Bianca informò Roma del coinvolgimento degli 007 di Al Sisi

Dal «New York Times» nuove accuse all'Italia: il governo sapeva tutto

Il caso di Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato e ucciso al Cairo nel gennaio 2016, continua a essere caratterizzato da colpi di scena. L'ultimo arriva fresco dagli Stati Uniti, dove emerge che la Casa Bianca aveva acquisito le prove che Regeni era stato vittima dei servizi di sicurezza egiziani e aveva avvertito il governo italiano. «Abbiamo prove incontrovertibili sulla responsabilità di funzionari egiziani ha rivelato un esponente dell'Amministrazione Obama al New York Times . Gli Stati Uniti passarono l'informazione al governo Renzi».

L'articolo del giornale americano, con il titolo «Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?», illustra una serie di fatti e un'analisi sulla vicenda, che ancora oggi non è sufficientemente limpida. «Non era chiaro chi avesse dato l'ordine di rapire e, presumibilmente, di ucciderlo», scrive il New York Times riportando un'altra fonte, ma quello che la Casa Bianca dava per certo, e che ha condiviso con il governo italiano, era che la presidenza egiziana conosceva le circostanze della morte di Regeni. «Non avevamo dubbi che questa faccenda fosse nota ai massimi livelli spiega una fonte al giornale . Non so se avessero responsabilità, ma sapevano, sapevano». L'inchiesta, realizzata dal corrispondente dal Cairo del New York Times, ricostruisce meticolosamente il soggiorno di Regeni al Cairo e descrive anche i tre servizi d'intelligence egiziani e come siano «in competizione fra loro». «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono queste conclusioni al governo Renzi», ma per scongiurare il rischio di bruciare una fonte locale, gli americani non hanno condiviso i materiali d'intelligence, né rivelarono quale dei tre servizi egiziani fosse dietro la morte di Regeni.

Dopo l'articolo del New York Times, il governo italiano ha fatto sapere di non aver mai ricevuto da Washington «elementi di fatto, né tantomeno prove esplosive», cosa che il giornale americano ha riportato correttamente, ma non ha smentito che gli Stati Uniti abbiano inviato le loro conclusioni sul caso al governo Renzi. Le «prove esplosive» però esistono e nessuno si è preso la briga di fare i passi necessari per prenderne visione.

Il corrispondente del New York Times racconta anche che il pool di magistrati inviati al Cairo per indagare sul delitto Regeni sono stati continuamente «depistati» e che il nostro ambasciatore, preoccupato per la piega che stava prendendo il caso, ha messo atto tutte le procedure per non essere intercettato e spiato.

Il giornale americano traccia anche un quadro di quella che era la situazione interna italiana. L'intervento dell'amministratore dell'Eni, Claudio De Scalzi, presso il presidente egiziano Al Sisi, al quale parlò tre volte della vicenda, ha creato «tensioni all'interno del governo italiano». L'Eni, in quel periodo, aveva annunciato la scoperta di uno dei più grandi giacimenti di gas del mondo al largo delle coste egiziane. Insomma, anche le nostre divisioni interne hanno pesato nel caso. «Le agenzie di intelligence italiane scrive ancora il New York Times avevano bisogno dell'aiuto egiziano per affrontare la minaccia dell'Isis, gestire la guerra in Libia e monitorare l'ondata di immigrati nel Mediterraneo». E così ci fu scarsa collaborazione anche fra i nostri servizi.

Naturalmente, il giornale americano non si spinge a tracciare teoremi sui responsabili dell'orrenda morte di Regeni, ma regala alcuni spunti, tra i quali il fatto che ci siano apparati deviati dei servizi egiziani, probabili esecutori del delitto, e che il Cairo volesse lanciare un segnale ai governi stranieri: nessuno, neppure un occidentale è al sicuro, se qualcuno pensa di «giocare con la sicurezza egiziana».

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