Cronache

Non si possono delegare alla macchina il conforto e l'angoscia dell'annuncio

Non si possono delegare alla macchina il conforto e l'angoscia dell'annuncio

N egli occhi di Ivan Ilic la morte prese la forma di un sacco nero. Poi arrivò la luce e la consapevolezza gioiosa della vita che se ne andava. Nell'ospedale supertecnologico di Fremont non c'è stata battaglia fra i sentimenti, non c'è stato il duello fra l'angoscia e la ritrovata pacificazione interiore di cui parla Tolstoj. I titoli di coda li ha portati un robot. Freddo e impersonale, come il medico che collegato via Skype non ha accompagnato il paziente verso il finale di partita, ma gli ha letto il testo della condanna. Trasformando gli ultimi giorni di un uomo malato in una spietata esecuzione.

Siamo al punto più avanzato di una cultura che prima ha rimosso la morte e ora toglie di mezzo pure il camice bianco. La sua presenza, nel frangente decisivo in cui il tempo si spalanca verso l'eternità. È il momento che tutti temiamo ed esorcizziamo fin da bambini, ma mai era successo che si affidasse alle macchine quella comunicazione estrema. Sono attimi pesantissimi, in cui tutto quello che si è stati e si è torna a bussare con prepotenza e presenta il conto. Proprio come a Ivan Ilic. Ciascuno può affrontare il grande salto come meglio ritiene, ma quello che non si può fare, per chi resta, è scappare, sposare la soluzione vigliacca, abbandonando le dita tremanti che chiedono sostegno e conforto. Sarà stato un incidente o forse no, forse quel che è accaduto è l'incipit di un mondo nuovo. Uno spazio in cui esistono solo certezze e dunque se ci spinge, come è inevitabile quando i giorni si assottigliano, in una terra incognita l'unica strategia diventa la ritirata. La fuga. Il ciao ciao al paziente, ai suoi tormenti, alla sua inevitabile solitudine. Il medico che spiega da uno schermo invece di chinarsi sul capezzale del morente è la fotografia di una fragilità che si nasconde dietro monitor, bisturi, laser, strumenti miracolosi di ultima generazione.

La scienza e la ricerca possono spostare in avanti, come è giusto che sia, quel confine impenetrabile. Ma eliminarlo dall'orizzonte è il più grande tradimento. Ancora di più se chi è chiamato, per professione e vocazione, a sostare sull'ultimo miglio del percorso, ritiene che una parola, un sorriso, anche solo lo sfiorare una mano, siano perdite di tempo. Inutili seccature. Compiti da delegare sempre più in giù, in una scala che arriva agli apparati elettronici. Mandati avanti come un boia per sbrigare in fretta e senza tempeste emotive quella fastidiosa faccenda. No, l'esistenza di ciascuno di noi non può finire cosi. Guardando un computer o un ipad invece degli occhi di qualcuno che è accanto a te.

Insieme a te nell'ultimo passo.

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