Magistratura

Nuova batosta per Davigo: querela Mieli ma poi perde

L'ex direttore del "Corsera" assolto per gli articoli sulla Giustizia. "Voleva un accordo, ho detto no"

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Dice Paolo Mieli: «Ieri, all'ultima udienza l'avvocato di Davigo mi ha proposto un accordo, ho apprezzato il gesto ma l'ho rifiutato. Ho preferito rischiare la condanna che fare pari e patta, e per un motivo semplice. La denuncia di Davigo non era contro l'articolo che ho scritto ma contro di me, contro il mio ruolo di direttore del Corriere della sera e contro le cose che ho scritto in questi anni sulla giustizia italiana».

E Mieli ha fatto bene a non accettare l'accordo. «Il fatto non costituisce reato»: bastano 34 minuti di camera di consiglio al giudice Luigi Varanelli per assolvere l'ex direttore del Corriere della sera, e per rifilare a Piercamillo Davigo un altro dispiacere. Mese orribile, il giugno 2023, per il Dottor Sottile del pool Mani Pulite. Nove giorni fa la condanna per avere ricevuto e rivelato i verbali segreti sul caso Eni e sulla loggia Ungheria. Ieri altra sconfitta, ed è quasi altrettanto bruciante visto l'argomento al centro del processo a Mieli: il ruolo di Davigo e della sua corrente nella gestione delle nomine interne alla magistratura, così come disvelato da Luca Palamara.

Davigo accusava Mieli di averlo diffamato, accostandolo a Palamara e al suo sistema di potere. Per due volte, il giornalista è andato a sedersi sul banco degli imputati. «E devo dire - racconta Mieli - che ritornare per la prima volta da decenni nel Palazzo di giustizia dove venivo ai tempi di Mani Pulite, e ritornarci in veste di imputato, è stato faticoso: umanamente, emotivamente, fisicamente».

Ieri a chiedere l'assoluzione del giornalista non è solo il suo difensore Caterina Malavenda, ma anche il pubblico ministero Paolo Filippini, rappresentante della stessa Procura milanese di cui Davigo è stato per decenni una star. Dopo due udienze di processo, dopo l'interrogatorio di Davigo e le dichiarazioni spontanee di Mieli, anche il pm si è convinto che non ci fosse stata nessuna diffamazione. E il tribunale è stato dello stesso avviso. Fine della storia.

Ma cosa aveva detto di così grave, Mieli? Semplicemente, aveva riportato quanto detto poche sere prima Luca Palamara, intervistato sul La7 da Massimo Gilletti: «Palamara ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione. Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggiore rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente». Niente di facinoroso, come si vede, anche perché Mieli si riportava a sintetizzare quanto detto da Palamara. Ma evidentemente l'ex direttore del Corriere aveva toccato un nervo scoperto. Così Davigo (che non aveva querelato Palamara per l'intervista a Gilletti, e si è già visto archiviare la querela per quanto scritto dall'ex collega nel libro Il Sistema) aveva denunciato Mieli per diffamazione aggravata a mezzo stampa, accusandolo di avere forzato e travisato le dichiarazioni di Palamara. «Mi ha indicato come partecipe di porcherie», si era lamentato Davigo durante il suo interrogatorio.

É bastato proiettare in aula il video della trasmissione per convincere il giudice che Mieli non aveva travisato alcunché. Così il giudice assolve il giornalista con formula piena. Una sentenza scomoda per Davigo, non solo perché in ballo c'erano quindicimila euro di risarcimento, né solo perché arriva a pochi giorni dalla sentenza bresciana che ha condannato Davigo a quindici mesi di carcere, o perché tutto gira intorno al tema arci-delicato delle lottizzazioni delle cariche. Ma perché, come dice Mieli, «Davigo ha voluto denunciare un simbolo».

E gli è andata male.

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