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Ora Renzi si riscrive il "suo" Jobs act ed emargina Poletti

Giorno cruciale per il Jobs Act: il governo pronto a varare i decreti attuativi. Ma  è polemica: così Renzi riscrive il provvedimento

Ora Renzi si riscrive il "suo" Jobs act ed emargina Poletti

È lo stesso copione andato in scena con la legge di Stabilità. Una settimana fa, appena tornato dal Consiglio europeo di Bruxelles, il premier Matteo Renzi si è messo alla scrivania e ha cancellato un terzo degli emendamenti alla finanziaria. Negli ultimi due giorni dentro le stanze di Palazzo Chigi, non in quelle del ministero del Lavoro, si sta riscrivendo il Jobs act .

Il premier in persona e i consiglieri fidati, in primis il responsabile economia e lavoro del Pd Filippo Taddei, stanno mettendo a punto i decreti attuativi del disegno di legge varato dal governo un mese fa. Quelli che decideranno, ad esempio, cosa ne sarà dell'articolo 18. Solo lunedì un veloce incontro con i ministri dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e con quello del Lavoro, Giuliano Poletti per fare il punto. Ma per il resto - raccontano esponenti della maggioranza - il dicastero direttamente interessato ci ha messo poco del suo. Questo - spiega un esponente dell'esecutivo - perché il premier vuole tenere strette le leve di una riforma importantissima. Forse l'unica in grado a di convincere l'Europa che Roma sta facendo sul serio.

Le decisioni da prendere non sono di poco conto. Nei giorni scorsi si sono rincorse voci soprattutto sulla disciplina dei licenziamenti disciplinari per i nuovi assunti, quelli che rientreranno nel contratto a tutele crescenti.

L'ipotesi che sta percorrendo palazzo Chigi è quella dell' opting out , cioè lasciare alle aziende la facoltà di reintegrare o indennizzare il lavoratore, il cui licenziamento sia stato giudicato infondato da un magistrato. Ieri tutti hanno frenato, compreso Taddei. «È una delle ipotesi, ma tutto rimane aperto fino alla fine», ha spiegato ieri.

Lo stesso premier si è mostrato prudente. «Con il Jobs act sarà più facile assumere, non licenziare». I primi effetti, ha assicurato, si sentiranno «dal 2015». Ma ha anche fatto capire di non volere lasciare ai magistrati la decisione «Non è un giudice che deve decidere chi sta in azienda e chi no».

Fino al consiglio dei ministri di oggi, il governo potrebbe cambiare idea e percorrere l'altra strada. Cioè quella di prevedere il reintegro obbligatorio del lavoratore licenziato, ma solo in determinati casi specificati dalla legge. Contro questa ipotesi, il capogruppo di Area popolare Maurizio Sacconi. «Domani d-day della politica italiana. O via l'art 18 o via il governo per crollo credibilità», è l'avvertimento dell'esponente Ncd.

Ma il vero confronto è tutto interno al Partito democratico. Il contraltare di Renzi, non sono i sindacati né le opposizioni, ma il capogruppo democratico Roberto Speranza e l'ex ministro e presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano, esponente dell'ala laborista del Pd. Particolarmente critico nei confronti del premier. «Le voci si rincorrono, le piu disparate. Alcune per me agghiaccianti», spiega. Damiano si riferisce al licenziamento per scarso rendimento, ipotesi emersa negli ultimi giorni. «Chi lo stabilisce, il datore di lavoro? Allora siamo tutti licenziabili». Male anche «l'idea di disciplinare con le nuove norme anche i licenziamenti collettivi. Dove sta scritto nella delega?». Poi, appunto, l' opting out «cioè il caso nel quale a fronte della decisione del giudice di reintegrare il lavoratore l'azienda possa risarcire il lavoratore. Tesi incomprensibile nel momento in cui il fulcro del compromesso conquistato con il governo è quello di allargare i casi di reintegro al licenziamento discipliare, pur se tipizzato. Contraddizione in termini che va ben al di la di quanto indicato nella delega. Renzi ha chiesto lealtà, noi chiediamo lealtà a Renzi», è l'avvertimento di Damiano.

In sostanza l'accusa del Pd a Renzi è di avere tradito le conclusioni direzione sul Jobs act di settembre.

Superate dal rischio di un commissariamento europeo sulle riforme.

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