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Il Pd fa crollare il castello del Jobs Act

Il capogruppo Speranza imbarazza Renzi: "Un errore non ascoltare le Camere". E scoppia la guerra Fiom-Cgil

Il Pd fa crollare il castello del Jobs Act

Roma«Il governo ha sbagliato a non tener conto del parere delle commissioni Lavoro di Camera e Senato sui licenziamenti collettivi». La bomba la sgancia in tarda serata il capogruppo Pd alla Camera Roberto Speranza. Una dichiarazione che imbarazza non poco il premier Renzi e il governo. «Deve essere a tutti chiaro che se viene meno la necessaria sintonia tra Parlamento e governo non si va da nessuna parte». Forse Speranza è l'unico che ha capito qualcosa. «Se è vero che i pareri non sono formalmente vincolanti, è un errore non averli presi in considerazione - continua - le sfide che il paese ha di fronte richiedono non solo una convinta determinazione nell'azione di governo ma anche un ruolo autonomo e autorevole del Parlamento.

Ma se Speranza rimbrotta Renzi, Susanna Camusso ieri ha incontrato faccia a faccia il vulcanico Maurizio Landini. «Stai facendo un danno enorme al sindacato, e un regalo a Renzi». La segretaria Cgil imputa al capo della Fiom colpe pesanti: quella di usare il sindacato come strumento del proprio protagonismo politico e di offrire al premier l'antagonista ideale per continuare a vincere la sua battaglia contro i condizionamenti sindacali.

Con la sua intervista al Fatto in cui vagheggiava una nebulosa «coalizione sociale» per lanciare una «sfida democratica» a Renzi, Landini ha fatto saltare definitivamente i nervi a Corso d'Italia. «Un'idea minoritaria, avanguardista, avventurista», la liquida un dirigente Cgil. Un'idea partorita nei salotti della gauche (ieri è arrivata pronta la benedizione di Bertinotti, ma anche Rodotà, Cofferati e altri radical chic ) e che vorrebbe mettere insieme pezzi di sindacato, associazioni come Libera e Emergency, centri sociali, No Tav, Arci e i partitini della sinistra, da Sel al Prc per dare vita in laboratorio ad una sorta di «Podemos» alle vongole.

Landini smentisce di voler fare un partito, e sostiene di voler restare nel sindacato: «Non ho niente da spiegare, quello che voglio lo ho sempre detto alla luce del sole», si è schermito dopo il match con Camusso. Ma tra due anni il suo mandato Fiom scade, la Cgil è difficilmente scalabile (l'opposizione al centralismo camussiano è quotata sotto al 20 per cento, «è un po' come se Cuperlo volesse fare il segretario del Pd», ironizzano a Corso d'Italia) e molti pensano che la politica sia lo sbocco inevitabile.

Il timore della Cgil è di restare vittima della deriva landiniana: «Renzi è stato abilissimo nell'incoronarlo subito come leader dell'opposizione di sinistra, e nel bollarlo come sindacalista sconfitto, dando così un doppio colpo alla credibilità del sindacato». Ma è l'ipotesi di referendum contro il Jobs act, ventilata da molti Landini-boys, a creare più allarme in Cgil: «Chi agita questa idea deve riflettere dieci volte: se si fa un referendum del genere e lo si perde, chiudiamo baracca e burattini». A Landini & Co. però il referendum servirebbe come il pane come strumento di mobilitazione della «coalizione sociale» anti-Renzi, e il problema di vincerlo è del tutto secondario.

Landini comunque non è il solo a puntare sulla guerra del Jobs Act per rilanciarsi politicamente: le ultime mosse di Laura Boldrini, con i suoi attacchi al premier, segnano un ritorno in campo della presidente della Camera dopo un lungo periodo in cui ha cercato di guadagnarsi la benevolenza del premier. Ora la signora sembra aver capito che in casa renziana non ci può essere un grande futuro politico per lei, e torna a guardare a sinistra, solleticata da chi le spiega che potrebbe aspirare ad un ruolo di leader.

E la Boldrini, a conferma dell'operazione marketing , starebbe per dare alle stampe una nuova opera autobiografica, dedicata ai suoi primi due anni a Montecitorio.

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