Magistratura

La politica di parte nascosta dietro i codici. Un solo obiettivo: delegittimare il governo

Altro che interpretazione corretta delle leggi, l'esecutivo è considerato un nemico

La politica di parte nascosta dietro i codici. Un solo obiettivo: delegittimare il governo

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La politica di parte nascosta dietro i codici. Un solo obiettivo: delegittimare il governo

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A volte i giudici, o meglio, la magistratura in generale, assumono posizioni surreali, impongono una logica politica coprendola con motivazioni da azzeccagarbugli. La decisione delle toghe di Catania e poi di quelle di Firenze di respingere l'ipotesi di un rimpatrio di alcuni immigrati illegali in Tunisia perché «il Paese non è sicuro», significa nei fatti che non si può riportare a casa o nei paesi di provenienza nessun clandestino. Se quello è il metro non c'è nazione africana o medio-orientale che riconosca ai suoi cittadini i nostri stessi diritti costituzionali: non è che l'Egitto (caso Regeni), la Libia divisa in fazioni, oppure il Marocco retto da una monarchia autoritaria, la Turchia di Erdogan oppure la Siria di Assad siano paesi democratici che hanno uno stato di diritto compatibile con gli standard europei. Si tratta di un dato chiaro, incontrovertibile, al netto di ogni ipocrisia.

Se poi prendiamo come riferimento le posizioni di Amnesty International anche alcune delle più antiche democrazie hanno delle ombre, addirittura peccati, su cui l'organizzazione umanitaria storce la bocca: in alcuni Stati Usa c'è la pena di morte, mentre in Inghilterra tengono i clandestini fuori dai confini a bordo dei traghetti. E pure l'Italia per alcuni episodi è stata fatta passare per un Paese dove c'è la tortura, per non parlare del capitolo sull'immigrazione per il quale le anime belle ci trattano alla stregua di incivili. Con il paradosso che pur non essendo secondo loro un modello, gli immigrati dobbiamo tenerceli lo stesso.

Inoltre se la motivazione del no al rimpatrio dei clandestini deciso dal giudice di Catania e da quelli di Firenze è quella che la Tunisia non è un Paese sicuro, allora, se tanto mi da tanto, tutte le volte che le autorità italiane ne hanno rimandato a casa qualcuno hanno commesso un reato. Con Minniti, Salvini o Piantedosi. E altra questione: da quando la Tunisia non è uno stato sicuro? Chi lo decide il nostro governo che ha lì un'ambasciata o un magistrato interpretando gli astri o leggendo i tarocchi?

La verità è che quando la politica di parte nascosta dietro una toga inquina l'interpretazione di una legge, provoca come conseguenza una serie di contraddizioni a cascata. Un guazzabuglio da cui non se ne esce e che di fatto punta solo a delegittimare un provvedimento del governo con il solito immancabile corollario .

In realtà non è cosi perché determinate ordinanze o sentenze hanno soprattutto una valenza politica: uno può scriverle come vuole ma se la critica parte dall'assunto che secondo gli standard europei «la Tunisia non è un Paese sicuro» tu le leggi le puoi scrivere in italiano, in latino o in ostrogoto, ma non raggiungeranno mai l'obiettivo di accelerare i rimpatri. Quindi, il tentativo è quello di ostacolare l'azione di un governo considerato estraneo o, addirittura, avversario. Decisioni, quindi, che - mi sbaglierò - non aspirano ad un'interpretazione corretta del diritto ma vanno nel solco dello slogan lanciato una settimana fa da Eugenio Albamonte, il segretario di Area, la corrente che raccoglie le toghe di sinistra: «Bisogna resistere alla restaurazione».

Solo che a questo punto, invadendo il campo del potere esecutivo, questa parte della magistratura deve assumersi la responsabilità delle sue scelte, deve avere l'ardire di spiegarne all'opinione pubblica la natura politica: i clandestini non si rimpatriano, ma ce li teniamo punto e basta, siano mille, diecimila, centomila. Come pure la sinistra che plaude alle ordinanze di Catania e di Firenze deve avere il coraggio di sposare la politica dell'accoglienza indiscriminata, senza rinfacciare al governo l'aumento degli sbarchi.

Tutto si può fare meno che due parti in commedia.

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