Politica

Predicare la jihad in Italia? Per la Cassazione non è reato

I giudici riducono a «istigazione all'odio razziale» l'accusa all'imam di Andria: «Senza addestramento non è terrorismo»

Luca Fazzo

Un po' come ai tempi del terrorismo rosso, quando i «cattivi maestri» che istigavano alla violenza venivano assolti purché non si sporcassero personalmente le mani: così anche nei confronti dei fanatici della jihad islamica la magistratura sceglie di distinguere tra chi invita al martirio, e chi quegli inviti raccoglie. Come se il ruolo dei predicatori fosse nelle bande armate musulmane meno cruciale di quello dei tagliatori di teste.

Ieri la Cassazione deposita le motivazioni della sentenza che nel luglio scorso annullò le condanne di cinque estremisti islamici operativi tra la Puglia e la Sicilia, tra cui l'imam di Andria, Hosni Hachemi Ben Hassen, alias Abu Haronne. Era stata una decisione che aveva lasciato di stucco i magistrati della procura antiterrorismo di Bari, perché gli elementi raccolti a carico di Abu Haronne erano decisamente chiari. Non tanto le sghignazzate sulle chiese italiane distrutte dal sisma, quanto gli appelli ripetuti ai fedeli perché si convertissero alla guerra santa, i campi di addestramento sull'Etna, lo studio costante su Internet delle tecniche di confezionamento degli esplosivi. Nelle motivazioni della condanna inflitta in primo grado al quintetto, il giudice Antonio Diella (che per questa inchiesta era dovuto finire sotto scorta) si spiegava che Abu Haronne e i suoi «si preparavamo a diventare strumenti di punizione», e che l'obiettivo delle prediche dell'imam era suscitare negli accoliti «un desiderio irrefrenabile di andare a morire in guerra come mujaheddin». La moschea della città pugliese «non era solo un luogo di preghiera, ma anche un rifugio per gli appartenenti alla cellula».

Ma l'imam di Andria viene assolto dalla Cassazione: cancellata l'accusa di terrorismo, si farà un nuovo processo per l'accusa di «istigazione all'odio razziale», roba da ultrà da stadio. Lui non ci sarà, perché all'indomani dell'ordine di scarcerazione della Cassazione il Viminale lo ha espulso dal territorio italiano, e il processo chissà quando si farà. Nel frattempo, il punto fermo della vicenda restano le motivazioni con cui ieri i giudici romani liquidano l'accusa di terrorismo. Non c'è terrorismo, dicono, se l'attività di indottrinamento è «finalizzata ad indurre una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa», cioè se non è affiancata «dall'addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento».

Insomma, se la moschea non viene trasformata in un campo paramilitare, ogni predica è lecita, perché la conversione alla guerra santa contro l'Occidente «può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un'associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito».

Il gruppo, per la Cassazione, non era pericoloso: e lo dimostrerebbe il fatto che tra le intercettazioni del 2009 e gli arresti del 2013 nessuno del gruppo sia partito per il «fronte», né abbia commesso attentati in Italia. Come se non esistessero «cellule dormienti».

E come se non ci fossero precedenti di predicatori trasformatisi in terroristi a tempo pieno: come Mohamed Fezzani, assolto a Milano, e arrestato proprio ieri in Sudan.

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