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Premier muto sul palco e Padoan in platea. Il governo è in ostaggio

Gentiloni e ministro precettati all'evento. E il leader tace sulla durata dell'esecutivo

Premier muto sul palco e Padoan in platea. Il governo è in ostaggio

Ridotto a scimmia in gabbia. Scimmia che per ora non balla, come quella di Desmond Morris. Forse presto lo farà. Neppure parla: chiuso nel suo mutismo dolente, nella sua condizione subalterna di fenomeno da baraccone, il governo siede accanto a Matteo Renzi, l'indomito domatore. Lo guarda dalla platea con gli occhi stanchi e rassegnati di Pier Carlo Padoan (specie alle battute calcistiche prive di senso, perché la Roma non è la Fiorentina). Lo osserva attonito dietro gli occhialoni del premier Paolo Gentiloni, un soprammobile al banco della presidenza. Esibito al pubblico, esposto nella sua sottomissione, quasi schiacciato dall'unica parola vera, concreta che dovrebbe arrivare e non arriva. Non arriverà mai. «Il vero nodo è il sostegno o meno al governo Gentiloni», aveva spiegato entrando al circo Barnum il professor Gotor, bersaniano impenitente. Lo ripete dal podietto Cuperlo, quasi come mozione degli affetti: «Aiutiamo Paolo, evitiamo larghe intese». Lo dice in maniera diretta, palpitante nella sua nuova veste di signor Bersani, «non bersaniano», l'ex segretario che pure evoca, forse per la prima volta nella vita, la scissione dalla Ditta: «Dobbiamo capire... trovare se c'è qualcosa che ancora ci tiene assieme». Ma forse già non c'è più, perché Bersani è un buon vino onesto e contadino: «È vero o no, che una buona parte del popolo non ci sopporta? È vero o no che l'italiano non vuol essere stressato? Prima viene l'Italia, il Pd viene dopo. Ma noi comandiamo, e noi dobbiamo dirlo, non possiamo parlare come la Sibilla... Non possiamo lasciare un punto interrogativo sul nostro governo, ché farlo cadere metteremmo l'Italia nei guai. Ci vuole umiltà: diciamolo che lo sosteniamo fino a una conclusione ordinaria e normale della legislatura».

Sarebbe l'ammissione di un fallimento, la nascita di un successore o un antagonista, la legittimazione di un mondo che fa a meno di Lui. L'avvento della dura realtà. Per Matteo, sarebbe troppo, per questo lui la pensa all'opposto e quelle parole non verranno mai udite né pronunciate. Renzi desiste all'ultimo dall'idea folle di far parlare proprio il ministro dell'Economia sui dati e le cifre (c'è chi dice che sarebbe stato lui a negarsi). Gli scappa subito il lapsus rivelatore: «... il punto è che... è chiaro che tutto quello che abbiamo fatto in questi mille giorni ancora non basta...». Per Matteo il tempo non è passato. Tratta Paolo come il suo fattore, quello che gli tiene il podere e dà biada alle bestie. «Il presidente Gentiloni deve avere la massima stima di tutto il Pd... Lo faccio da qualche anno, non è certo la lealtà quella che manca». Di sopravvivenza e fino a quando no, non se ne parla.

Renzi è pervaso da rabbia fredda, lucida, misurata. Affiora a tratti, quando soprattutto allude alle magagne del passato, Telecom o Ilva, che investono i D'Alema e i Bersani. Non vede l'ora della commissione d'inchiesta sulle banche, «e quanto sarà appassionante, discutere delle banche... discutere con allegria, con la gentilezza di un partito che ha chiuso con i caminetti», insiste acido. Ma poi è sul governo, ormai annichilito, il suo dettar tutta la linea: voucher, referendum, no alle tasse, Europa, «ho parlato a lungo con Graziano» (Delrio, ndr), «sono sicuro di Minniti». Il premier vive ormai assorbito nella sua marionetta, Mangiafuoco alla fine gli lascerà decidere solo una cosa: la propria eutanasia, quando non ne potrà più, stacca la spina. «Non tocca a me», fa spallucce Matteo.

Ed è un altro sibilo glaciale.

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