Cronache

La prevalenza del cafone. Ecco perché ha trionfato

È ovunque, maleducato e con la faccia tosta. Usi e "scostumi" del buzzurro contemporaneo

La prevalenza del cafone. Ecco perché ha trionfato

Sono ovunque. Urlano al telefono dei loro trascurabili accadimenti nella carrozza del treno ad alta velocità alle sette del mattino, dopo aver fatto lungamente trillare la cavalcata delle valchirie suonata alla pianola Bontempi. Si siedono a metà di due posti nella metropolitana affollata occupandoli entrambi, incuranti degli sguardi afflitti delle vecchine rimaste in piedi. Saltano le file. Parcheggiano in seconda fila (a Roma anche in terza). Allungano i piedi sul sedile davanti. Non ringraziano se li beneficiate di una piccola cortesia. Utilizzano il breve potere garantito da una mansione purchessia per umiliare il prossimo. Emanano cattivi odori, cattive parole, cattivi pensieri, cattive intenzioni. Sono i cafoni. Sono sempre gli altri, ma spesso siamo anche noi. Sono mutanti e geneticamente indistruttibili. Li trovi sui treni, per strada, alla posta, a scuola, in aeroporto, in televisione.

Contravvengono alla regola non scritta che ha tenuto in piedi il mondo fino a qualche anno fa, quella del «pare brutto», che spingeva quasi tutti a tenere un comportamento rispettoso e vagamente ipocrita quando erano in pubblico. Oggi invece è proprio quando si è al centro dell’attenzione che si esagera, che si offre al mondo su un vassoio il peggio di sé. Perché i neocafoni hanno successo. Come scrive Danny Wallace, «scambiamo la loro maleducazione per sincerità, perché scambiamo la sincerità con l’avere un’opinione, proprio come quel tizio noioso, sempre presente quando si va a una cena, che scambia il cinismo per umorismo». Wallace è uno scrittore, commediografo e giornalista scozzese, autore de «La legge del cafone», amaro e divertente libro edito in Italia da Feltrinelli (282 pagine, 15 euro) in cui analizza la «prevalenza del cafone contemporaneo», lavora a una sorta di disperante antropologia del maleducato e ipotizza una sorta di manualetto di autodifesa da chi pensa che tutto gli sia consentito a difesa di chi resiste. In realtà il quadro dipinto da Wallace - che parla soprattutto di Gran Bretagna e Stati Uniti ma che troverebbe alcuni fantastici fenotipi del cafone anche da noi - è molto avvilente. Soprattutto perché l’ipotesi di studio da lui assunta è che la cafonaggine sia contagiosa.

Chi ha subito di recente un episodio di maleducazione diventa più sensibile sull’argomento e generalmente è più propenso ad adottare a sua volta un comportamento arrogante o screanzato, in una sorta di vendetta trasversale. Wallace riporta i risultati di uno studio condotto da Trevor Foulk e da alcuni suoi colleghi e pubblicato sul «Journal of Applied Psychology»: in un esperimento due gruppi di studenti hanno video due differenti video e poi sono stati invitati a rispondere a una mail di tono neutrale. Ebbene, coloro che avevano assistito al filmato nel quale era ripreso un episodio di villania hanno mostrato una maggiore propensione a rispondere successivamente al messaggio con toni ostili rispetto a quelli che avevano assistito a un video asettico. La maleducazione, peraltro, fa anche male alla salute. Non solo perché chi è lungamente esposto alla sua mefitica azione subisce un reale indebolimento del proprio sistema immunitario diventando più incline a contrarre diabete, cancro e patologie cardiache e (udite udite) aumentando anche il rischio di ingrassare. Ma anche perché si calcola sia responsabile del 40 per cento di errori medici, perché annebbia il cervello e impedisce di elaborare correttamente le informazioni. La maleducazione ci rende meno efficienti, mina la nostra memoria di lavoro e nel caso dei dottori questo può avere effetti letali. L’educazione non è solo rivoluzionaria, fa anche bene.

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