Politica

Quei figli (eterni) del sei politico

La "buona scuola" è stata pensata per i prof, non per i ragazzi

Quei figli (eterni) del sei politico

La scuola riparte, ma restando ferma. Fra i banchi si specchia un'Italia in cui convivono qualità e sciatteria, con la colpa di non distinguere l'una dall'altra. La pretesa del tutto uguale uccide il valore del merito, esaltando il disvalore del rassegnato galleggiare. Ci riguarda tutti, più di quello che siamo disposti ad ammettere.

La politica e l'informazione si occupano di scuola quando ballano gli interessi di chi ci lavora, disinteressandosi di quelli di chi ci studia. Il massimo del degrado lo si raggiunge all'università, con un sistema non selettivo che genera abbandoni e poche lauree. Non si fugge dalla difficoltà, ma dall'inutilità. Nel pieno di una grave e lunga crisi economica, accompagnata dall'incapacità di tagliare la spesa pubblica improduttiva e, conseguentemente, alleggerire il giogo fiscale, puntare sulla qualità della formazione sarebbe il minimo per non rassegnarsi al declino. Da cui, invece, si sembra affascinati. Chiamiamo «investimenti» nell'istruzione l'aumento della spesa per gli stipendi, continuando a rifiutarsi di usare la misurazione dei risultati quale unico metro per indirizzare soldi e studenti. L'accademia del burocrate autoreferente.

Inventiamo «diritti» come quello di portare un panino da casa, senza avvertire l'orrore di bambini e ragazzi che vivono assieme e si separano per nutrirsi, impoverendo tutti in un solo colpo. Eppure la spesa per evitare questo scempio sarebbe modesta, se solo non ci si occupasse esclusivamente di personale docente e non docente. Fra questi ce ne sono di bravi e bravissimi, come di parassiti semianalfabeti che stanno lì (quando ci stanno) solo per la paga. Li trattiamo tutti allo stesso modo, nel timore che premiare i meritevoli sia un metodo capace di tracimare in tutti i campi. Colpa della politica? Certo, ma colpa anche nostra. Questo mesto spettacolo sarebbe impossibile se solo le famiglie chiedessero per i loro figli non intrattenimento e diplomi, ma conoscenze e capacità. Se solo non ci si mobilitasse per evitare il trauma di qualche brutto voto o di quale bocciatura, divenute rare, ma per rivendicare il diritto al sapere e al poterlo fare valere. Genitori cresciuti al sei politico e rifuggendo la competizione vogliono evitare ai loro figli i dolori dell'insuccesso. Meritato o immeritato che sia, perché così è la vita. Perché si deve sapere affrontare il giusto e l'ingiusto. Vogliamo proteggere i pargoli dall'idea che solo chi è bravo va avanti. Quelli, poi, si spaparanzano davanti alla televisione e partecipano emotivamente a programmi di selezione musicale o culinaria, gustando la gara fra chi va avanti e chi viene buttato fuori. Gareggiare è spettacolo, galleggiare è la vita. Così si preparano a fare i falliti, o, più spesso e fortunatamente, si svegliano e ci mandano tutti a spigolare, andando da soli a cercarsi fortuna.

Ci vorrebbe poco, per rompere l'incantesimo: cancellazione del valore legale del titolo di studio; pubblicazione dei risultati d'apprendimento, scuola per scuola; monitorare il successo professionale di chi si laurea in un posto anziché in un altro; indirizzare gli investimenti dove ci sono insegnanti che la meritocrazia la praticano prima di tutto su se stessi; escludere che le cattedre siano assegnate a vita, ma siano conquista continua, fatta di studio e aggiornamento, misurati con i risultati degli studenti. Basterebbe poco, ma occorrerebbe tantissimo: discutere di scuola e università pensando a chi la frequenta e non a chi ci campa, senza la paura del mercato, ma con il terrore che quei ragazzi non abbiano mercato. Basterebbe abbandonare la mentalità corporativa e guardare all'utile. È tantissimo, per un Paese disposto a tutto, tranne che ad abbandonare i propri vizi.

Nessun alibi per i ragazzi, che ora tornano sui libri: studiare, studiare, studiare.

Aspirare a essere come noi è come darsi sconfitti in partenza.

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