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La rapina del canone Rai in bolletta

Ogni tassa è odiosa, ma quella destinata a finanziare la tv pubblica lo è particolarmente

La rapina del canone Rai in bolletta

O gni tassa è odiosa, ma quella destinata a finanziare la Rai lo è particolarmente. E non per l'ovvio motivo che nessuno è mai felice di mettere mano al portafoglio, ma perché qui risulta debolissima e nei fatti inadeguata l'intera costruzione ideologica che pretende di giustificare l'imposizione fiscale: l'idea che lo Stato abbia il diritto di sottrarci una parte delle nostre risorse allo scopo di finanziare beni (detti «pubblici», nel gergo degli economisti) che altrimenti non esisterebbero.

Ai tempi dell'Eiar, l'azienda radiofonica che precedette la Rai, c'erano funzionari che giravano le campagne per spiegare ovunque che - in assenza degli studi di Torino - nessuno avrebbero mai potuto ascoltare la radio: e quindi era necessario versare questa sorta di canone obbligatorio. Ma nei decenni successivi, dopo l'esplosione delle realtà radiotelevisive private, quell'argomento si è sciolto come neve al sole.

Lo sanno tutti: come le televisioni private che vivono di pubblicità (si pensi a Mediaset ) o liberi contratti (è il caso di Sky ) non hanno bisogno di estrarre denaro con la forza dal conto corrente dei propri fruitori, la Rai potrebbe (...)

(...) fare lo stesso. Se non lo fa è per un motivo molto semplice: perché se dovesse vivere di pagamenti volontari con ogni probabilità dovrebbe chiudere alla svelta e questa soluzione è avversata sia dalle sue migliaia di dipendenti, sia da quella classe politica che usa l'informazione di Stato quale strumento di autopromozione e manipolazione della realtà. Da tanti decenni la Rai è molto malgestita, ha un numero esorbitante di addetti, costi altissimi e produttività limitata. Se fosse messa sul mercato, i nuovi proprietari dovrebbero operare una drastica riorganizzazione e licenziare moltissimi dipendenti.

A rigore, per di più, in una società libera un sistema informativo controllato dallo Stato neppure dovrebbe esistere. Tra il governo e i media ci vorrebbe un muro assai alto, in modo tale che ognuno lavori in piena libertà e si eviti la piaga delle «verità» di regime. Quanti sono al potere sanno assai bene cos'era la Pravda brezneviana o il modo in cui Hitler seppe usare la radio statale per nazificare la società: eppure non riescono ad abbandonare l'idea di controllare la comunicazione e piegarla ai propri privati interessi.

Da questo discende che la barzelletta secondo cui la Rai sarebbe al servizio del «pubblico», e cioè di tutti noi, è vecchia e non fa più ridere. Sul mercato ci sono ormai molte televisioni più colte (si pensi ai canali dedicati alla musica classica o all'informazione economica), meglio in grado di seguire le notizie, ancorate in maniera assai significativa alle diverse comunità locali. Questo arroccamento a difesa della Rai è dunque senza giustificazioni: è solo espressione dell'incredibile arroganza di due gruppi numericamente ristretti - i dipendenti del carrozzone di Stato e la palude politica romana - che non sono in grado di percepire quanto ormai sia forte il senso di ribellione nella società italiana.

Il risultato finale è un'estorsione in forma legale. Non è un caso che oggi il governo guidato da Matteo Renzi si proponga di nascondere questa autentica vergogna immaginando d'incassare il canone grazie alla bolletta elettrica: in tal modo il prelievo tributario diventerà ancor meno riconoscibile, trasparente, percepito.

Ci sarà una piccola riduzione (da 113 a 100 euro), che sarà ampiamente compensata dal fatto che oggi una quota molto ampia di italiani si rifiuta di pagare il pizzo di Stato, ma in tal modo non potrà più farlo.

Saremo sempre meno liberi, sempre più sfruttati.

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