Politica

Referendum, rissa sulla data «Renzi furbetto sgradevole»

D'Alema attacca il governo: «Se vincono i No addio al Partito della Nazione». Per i sondaggi sono in testa

Roberto Scafuri

Roma Chi si rivede. Al cinema «Farnese» di Campo de' Fiori - piazza dove fu arso vivo Giordano Bruno, tanto per dire - danno El abrazo de la serpiente, ricercato film il cui protagonista è tal Karamakate, uno sciamano d'Amazzonia ultimo sopravvissuto della sua tribù. Ci si sente un po' così, sciamani e sopravvissuti, nella mattinata indetta dal nostro Karamakate, che di solito chiamiamo Massimo D'Alema.

Incantatore di cobra per tutta la vita, oggi finalmente votato a buona e giusta causa (e non di respiro internazionale, come giustamente lamenta il senatore Pd Corsini). Quella per il «No»: si scrive su una scheda di referendum, se ne desume un sonoro «No» a chi sappiamo. L'incantatore dei serpenti di seconda generazione, quello denominato Matteo Renzi.

Tutto accade mentre il premier con la sua ministra di riferimento, Mariaele Boschi, fa melina sulla data di una consultazione che si preannuncia un po' come la battaglia di Waterloo per Napoleone, e sa Iddio se quella mattina il generale nutrisse ancora speranze di vittoria. Renzi mica tanto, a guardare i sondaggi (per Brunetta il «No» sarebbe al 65-70%). Di conseguenza la data potrebbe slittare tra novembre e dicembre, secondo la Boschi. Renzi corregge infastidito e parla in politichese: comunque «la data, fissata nei prossimi giorni dal Cdm, seguirà le disposizioni di legge». La polemica però infuria: «Buffoni, basta rinvii, intervenga Mattarella», gli strali lanciati da un fronte che va da Grillo ai leghisti. Eppure ciò che merita davvero nota è il rito «vudù» del Gran Vecchio Sciamano. Altro linguaggio, altra categoria. Sulla data, per esempio, il ringalluzzito Max dice di trovare «davvero sgradevole questa furbizia. Abbiamo ascoltato minacce di dimissioni, di caduta del governo, salvo poi tornare indietro e dire che non ci si dimette più, perché intanto i sondaggi erano cambiati e non si sa più che fare. Caos totale». Si ride di gusto. D'Alema non usa perifrasi, guarda il taccuino solo per non dimenticare nulla. La riforma è «fasulla, paccottiglia ideologica» varata da «una maggioranza trasformista che non ha mandato per farlo». Tutto era stato pensato per un plebiscito personale, spiega, l'escalation prevedeva referendum e Politiche. Certo è, continua, che «la vittoria del No segnerebbe la fine del partito della Nazione». E sarebbe meglio che la tremebonda minoranza dem dei Bersani, Cuperlo e Speranza si decidesse, perché «tanto l'Italicum, un algoritmo che trasforma i pochi in tanti, non cambierà. Io sono un grande ammiratore del premier - ironizza - perché è capace di dire qualsiasi cosa». Ma quel che accade è un «fenomeno immenso: milioni di persone hanno smesso di votare Pd», dice D'Alema che nega di puntare al «giochino di un duello con Renzi», o a una corrente che «divida il Pd», o a un altro partito. No, lui rivuole proprio il «suo», anche se «siamo poveri» e non abbiamo dietro Marchionne («Non si capisce perché un lussemburghese come lui si interessi tanto alla nostra Carta»). «Non perderdiamoci di vista», la morettiana raccomandazione. «Non solo da qui al referendum, ma anche dopo».

Quando ci sarà una nuova generazione, post-rottamatori-post-rottamati.

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