Renzi-Boschi, lo scaricabarile per le grane dei papà scomodi

Matteo e Maria Elena cominciano a riconoscere il coinvolgimento dei genitori in casi giudiziari Ma se non fossero stati così spregiudicati, forse i loro ragazzi non si troverebbero dove sono oggi

Renzi-Boschi, lo scaricabarile per le grane dei papà scomodi

Q ualcuno finge, qualcuno ancora non se n'è accorto. Eppure in pochi spasmi, qualche balzo da guitto e un mucchio di chiacchiere insulse, ci ritroviamo catapultati dall'era nella quale dominavano i «figli di papà» a quella nella quale i «papà di figli» si fanno scudo di pargolette mani. Mani non del tutto linde, certamente, e non si sa ancora quanto. Innocenze che sembrano difese dallo stato di diritto (articolo 27 della Costituzione, la responsabilità penale è personale) e testi sacri (non ricadano sui figli le colpe dei padri, Geremia - 31). D'altronde l'ora sembra avvicinarsi - si consultino i Rolex a Palazzo Chigi - e sia la ministra Maria Etruria Boschi, sia il premier Matteo Tiziano Renzi, difendono la poltrona con unghie e denti. Questione di sfumature: se prima «papà è una persona perbene» (Boschi, Camera), oggi se pure babbuccio verrà raggiunto da messi giudiziari, «si trovi un avvocato, io che c'entro? Non mollo». Rincara la dose di Vinavil sulla poltrona il capo-tribù (Renzi, Repubblica tv): «La Boschi fa benissimo, è una posizione nostra. Se chi ha il padre deve dimettersi, il primo dovrei essere io, visto che mio padre da sei mesi è stato raggiunto da un avviso di garanzia. Se ricevi un avviso di garanzia, ti trovi un avvocato e dimostri quello che è successo. La responsabilità penale è personale e non si misura in avvisi di garanzia».Come sempre, in Mastro Parolaio, il sacro si mescola col profano, e la verità con la bubbola (o babbola?). Al pari di quel protagonista di Padri e Figli, il nichilista Bazarov, che Turgenev fa morire in modo meschino per farne risaltare i limiti; una gioventù più abile a parole che con i fatti. E i fatti dimostrano che siamo lontani anni luce dall'angoscia provata dal Ghibellin fuggiasco, per la condanna dell'esilio che ricadeva sulla testa dei propri figli. Così da ricorrere tanto nell'incontro con Farinata degli Uberti, quanto nell'evocazione del dramma fagocitatorio di conte Ugolino, rosicchiatore di crani fanciulli. Per spirito di sopravvivenza.Ma qui è chiaro invece che siamo in presenza di padri che non sentono su di sé alcun peso di responsabilità, dell'avvenire tragico maturato sulla testa dei propri figli. E il motivo si sospetta senza grandi sforzi: ché se non fossero stati tanto traffichini e pronti a sbarazzarsi degli scrupoli, forse quei ragazzotti oggi non sarebbero là dove sono, e non avrebbero fatto fortuna. È questo il segreto che si nasconde dietro le difese a metà dei figli verso i babbi, quei padri consolidati da mille fili debitori e creditori, alle spalle degli spennati risparmiatori ed elettori della provincia toscana. Più che famiglie e familiari - in Italia roba sacra, guai a toccarla - torna il totem della tribù. Di legami stretti, forti, insondabili e invalicabili. Ecco perché, come in certe tribù di waziki al confine tra Pakistan e Afghanistan, dovrebbe vigere forse ancora per codesti toscanacci disseminati tra Rignano e Arezzo una responsabilità collettiva e non personale. Come nella Russia degli zar e della servitù della gleba; come nel mondo antidiluviano nel quale, dice la Bibbia, «I padri han mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ezechiele - 18,2).

Quel mondo del Levitico da cui si traevano destini neri e terribili: «Quelli di voi che sopravviveranno, scompariranno per i loro peccati e per i peccati dei loro padri» (Sant'Agostino, Opera incompiuta contro Giuliano).

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