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Renzi canta già vittoria. La minoranza non ci sta

Il segretario Pd lancia un partito a vocazione maggioritaria. Ma è guerra sul "parlamento dei nominati"

Renzi canta già vittoria. La minoranza non ci sta

Sul piatto della direzione notturna di ieri Matteo Renzi ha messo il «risultato straordinario», il «passo storico» cui ritiene di aver portato il suo partito, e con lui il paese. Lo sblocco di quel «pin», la legge elettorale, che secondo lui è necessario a dimostrare «che l'Italia le riforme le fa sul serio».

Un modello elettorale che è «una grande vittoria del partito a vocazione maggioritaria», nucleo fondante del Pd delle origini (un omaggio indiretto a Walter Veltroni). E questo avverte rivolto alla sinistra Pd, vuol dire che nei prossimi mesi «le regole di ingaggio interne andranno discusse», e il rapporto tra maggioranza e minoranza dentro il partito andrà meglio definito «nel rispetto dei reciproci ruoli ma con la certezza che si condividono gli obiettivi finali».

Un modo per avvisare che, una volta varate le riforme, il principio di maggioranza dovrà essere rispettato da tutti, e gli obiettivi che il Pd si darà non potranno essere continuamente messi in discussione e ostacolati dall'interno, come accade ora. Su questo occorrerà tornare, nel dibattito del Pd, perché con il premio di lista c'è un mutamento strutturale delle regole del gioco».

Basta «rinvii e traccheggiamenti», il calendario di riforme che si è concordato sia con gli alleati di maggioranza che nel dialogo con Fi, «superando le conflittualità della stagione passata», è serrato e chiaro, spiega ai suoi il premier: entro dicembre l'Italicum va chiuso al Senato, e entro gennaio alla Camera.

Sul premio di lista, ammette, resta «qualche perplessità» di Berlusconi, ma «anche se in sede di voto non saremo d'accordo su tutto, si andrà avanti lo stesso». La soglia di sbarramento al 3% è «bassa», ammette, ma difende la rappresentanza in un impianto saldamente maggioritario. Se poi il Parlamento deciderà di innalzarla un po', non sarà certo Renzi a fare le barricate. C'è la conferma dei 100 collegi con capolista bloccato, e il resto degli eletti verrà scelto con le preferenze. E la riforma parallela del Senato è la garanzia che la legislatura andrà avanti «fino al 2018», visto che l'Italicum vale solo per la Camera.

Sul Jobs Act il premier non apre molti spiragli alla minoranza: le nuove regole sul lavoro, abolizione dell'articolo 18 inclusa, «devono entrare in vigore a gennaio prossimo», su questo non ci può essere discussione. Anche perché Renzi sa bene che è la carta principale che può giocarsi in Europa per dare credibilità al suo afflato riformatore, e non ha alcuna intenzione di farsi bloccare dalla sinistra Pd e dalla Cgil.

Dunque, fa sapere, è pronto a mettere la fiducia (anche scontando un certo numero di dissidenti) sul testo uscito dal Senato. Oppure si può anche inserire qualche piccola modifica, ma previo accordo della maggioranza (ossia di Ncd) e garantendo comunque l'entrata in vigore a gennaio. Insorge subito Stefano Fassina, a nome della minoranza. Ma alla Camera Renzi ha i numeri per blindare il voto anche se una parte dei dissidenti voteranno contro il provvedimento.

La minoranza contesta anche i troppi collegi bloccati, e chiede di ampliare le preferenze. Ma deve riconoscere al premier di aver «fatto tesoro di alcuni suggerimenti» arrivati dalla sinistra Pd, come l'innalzamento della soglia per il ballottaggio al 40%. Certo, era la soglia che la minoranza chiedeva prima delle elezioni europee, quando Renzi li ha presi decisamente alla sprovvista superando ampiamente l'asticella, e ora non se la possono certo rimangiare proponendo il 50%. «Oggi, con questa riforma», dice il premier, «il Pd diventa adulto.

E la responsabilità è tutta sulle nostre spalle: abbiamo l'occasione per fare di questa legislatura, con un mutamento strutturale delle regole del gioco, la legislatura del cambiamento».

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