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Renzi finisce disarmato: addio elezioni anticipate

Il premier ammette la sconfitta ma teme che le riforme s'impantanino al Senato dove la fronda Pd può giocargli brutti scherzi. E minacciare il voto non gli conviene più

Renzi finisce disarmato: addio elezioni anticipate

Non è certo la sconfitta di Felice Casson, suo arcinemico nel Pd, a turbare Matteo Renzi: la perdita di Venezia era prevista, e il vincitore Brugnaro «è praticamente un renziano ad honorem», scherzano i renziani. Anzi, la sconfitta di Casson dimostra «che non è guardando a sinistra che si vince, ma recuperando al centro», sottolinea Renzi. Persino la perdita più bruciante di Arezzo, patria di Maria Elena Boschi e unica città che poteva vantare un candidato renziano doc, e delle altre città da cui il Pd esce battuto, non fa disperare più di tanto: certo, il premier ammette che «a questo giro siamo andati male». Inutile addolcire la pillola: stavolta il premier e i suoi usano senza giri di parole il termine «sconfitta», mai frequentato in era renziana. «Abbiamo perso tutto quello che si poteva, e anche quello che non si poteva», dice la deputata democrat Anna Ascani. «Niente brindisi, le sconfitte bruciano», ammette Lorenzo Guerini.

Ma è un'altro lo spettro che si aggira ora nel Palazzo, e che allarma la dirigenza renziana: lo spettro della «palude» e della paralisi. Finora Renzi è riuscito a mandare avanti una raffica di riforme, nonostante la fronda interna ed esterna perché era l'unico a non temere il voto, e a poter sfidare tutti su quel terreno. Ora l'incantesimo rischia di rompersi, temono i suoi. E quei «numeri in più» che il premier garantiva di avere in Senato, grazie all'apporto di verdiniani o altri di opposizione pronti a dargli una mano, potrebbero svanire: ora che, come lo stesso Renzi afferma, «si è visto che il centrodestra non è morto, e può essere un avversario temibile», saranno molti meno i senatori interessati a mollare il Cavaliere per passare dall'altra parte.

E dunque la partita delle riforme in lista d'attesa al Senato (scuola, Rai, bicameralismo) si fa più impervia. Mentre la minoranza interna, secondo la tradizione antropofaga tipica della sinistra, gioisce per la «batosta» al premier e si prepara a rendergli la vita più difficile: Mineo e Tocci fanno ostruzionismo alla riforma della scuola in commissione al Senato, mettendo a rischio una maggioranza già sul filo. E oggi non è escluso che la sinistra Pd giochi qualche scherzo al candidato capogruppo Ettore Rosato, che verrà eletto a voto segreto e ha come obiettivo di superare i 200 voti presi dal suo predecessore Speranza.

Sulla scuola si va avanti day by day: ieri sono stati votati un po' di emendamenti in Commissione (quelli vagliati col contagocce dalla commissione Bilancio, presieduta dal Ncd Azzollini, su cui pende una richiesta di arresto, e dove si rischia lo stallo). Il governo è pronto a concordare alcune modifiche con la minoranza interna, ma se Mineo e Tocci si impuntassero e lo mandassero sotto in commissione, diventerebbe tecnicamente impossibile mettere la fiducia sul testo un aula, come si meditava a Palazzo Chigi. Il rischio che la riforma, e con essa la stabilizzazione di 100mila precari, slitti di un anno viene ammesso ai piani alti del Pd. E c'è l'ipotesi che, in caso di impasse , si provi invece ad accelerare sulla riforma Rai, mandando quella in aula la settimana prossima al posto della Buona Scuola.

E poi c'è la riforma del Senato: minoranza Pd e un pezzo delle opposizioni insistono sulla elezione diretta dei senatori, ma questo vorrebbe dire smontare l'articolo 2 del ddl e in pratica ricominciare tutto daccapo. «La speranza», ragiona il vicepresidente del gruppo Pd Giorgio Tonini, «è che Forza Italia, che qui a Palazzo Madama ha un gruppo dirigente ragionevole, sia disposta a ragionare con noi sulla riforma e a mandarla avanti.

Perché chiunque vinca alle prossime politiche avrà tutto da guadagnare da un assetto istituzionale che superi finalmente un bicameralismo ormai fuori dalla storia».

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