Politica

Renzi incassa il Jobs Act ma perde per strada il Pd

Via libera alla riforma alla Camera con soli 316 sì: 29 deputati democratici lasciano l'Aula con Forza Italia e le opposizioni. E Fassina accusa: «Il premier alimenta tensioni sovversive»

M ica male, per il Partito trionfante del Conducator , reduce dall'ultima «schiacciante» vittoria elettorale; il partito che il suo Capo accredita stabilmente oltre il 40 per cento e proietta - fatti e non parole permettendo - verso la fine legislatura.

Il Pd inaugura una nuova stagione, quella dello «splendido isolamento»: vota il Jobs Act renziano «monco» della minoranza interna, con i soliti distinguo e psicodrammi incomprensibili, in un'aula di Montecitorio abbandonata anche dalle opposizioni. Segnali di salute senz'alcun dubbio ottima e abbondante, verrebbe da dire. Come il rancio d'un tempo, trangugiato per forza e in mancanza di meglio.

«Più tutele, solidarietà e lavoro», twitta un sempre più autoreferenziale Renzi al passaggio della legge-delega alla Camera, con 316 «sì» e soli sei «no». Il «mini-Aventino» si consuma tra il drappello di deputati pidini che escono dall'Aula, come annunciato da Fassina, altri che si dileguano e i civatiani che restano per votare contro assieme a Romano (Forza Italia) e Melilla (Sel). Il risultato finale, mai stato davvero in discussione, parla perciò di una difficoltà estrema nella maggioranza (tutt'altro che rinfrancata dall'abbandono degli elettori, quel dettaglio considerato «secondario» dal premier Renzi). Tanto che l'area riformista del capogruppo Speranza alla fine rivendicava di aver salvato il governo in extremis con il proprio «sì».

Che non fosse una giornata di festeggiamenti lo si era capito subito, dalle parole di Pier Luigi Bersani: «L'impostazione del Jobs Act resta difettosa, voto sì per disciplina, perché sono stato segretario di questo partito e se c'è qualche legno storto da raddrizzare penso che lo si possa fare solo nel Pd». Una duttile disponibilità con la quale Bersani, che pungeva il premier sull'Emilia («Il segnale è molto forte e intenzionale»), dava «copertura» a una minoranza da giorni in subbuglio. «Capisco le diverse sensibilità, che il Pd le deve lasciare libere di esprimersi: siamo di fronte al bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto». Del tutto vuoto per Civati, che stavolta s'impuntava senza ripensamenti: «No, proprio non ce la faccio. Siamo diventati il nostro contrario». Una trentina di deputati, capeggiati da Fassina e Cuperlo, decidevano invece di mettere nero su bianco il proprio dolore annunciando la non partecipazione al voto. Sotto il documento, 29 firme: Agostini, Albini, Argentin, Bindi, Bray, Boccia, Carra, Capodicasa, Cenni, Cimbro, Cuperlo, D'Attorre, Farina, Fassina, Fontanelli, Fossati, Galli, Gregori, Iacono, Laforgia, Malisani, Miotto, Marzano, Mognato, Pollastrini, Rocchi, Terrosi, Zappulla, Zoggia. Più tardi, in conferenza stampa, Fassina lancerà l'accusa più velenosa: «Delegittimare chi rappresenta i lavoratori, come fa Renzi, non giova alla pace sociale ma alimenta tensioni sovversive e corporative».

A vuoto, anzi irrisi dai dissenzienti, gli appelli del presidente del partito, Matteo Orfini: «Il Pd voti unito, per rispetto della nostra comunità». Ma la comunità, nel frattempo, s'era dispersa in tanti rivoli. Riunioni in salette riservate e conciliaboli in Transatlantico, la volontà del presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, a lavorare già da oggi sui decreti attuativi (visto che Renzi punta a un'approvazione sprint nella seconda lettura del Senato, con il via libera delle commissioni entro giovedì) e la premurosa accoglienza a un gruppo di 50 delegati della Fiom della Lombardia invitati per l'occasione da Sel. All'incontro, compresa foto di gruppo su una terrazza di Montecitorio, partecipavano anche Cuperlo, Fassina e Civati.

Quest'ultimo, con più d'un piedino ormai ben oltre la soglia del Pd.

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