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E così il Rottamatore resta senza stipendio

Perde l'indennità da premier e non ha quella da onorevole. E le casse del partito sono vuote

E così il Rottamatore resta senza stipendio

Una volta fuori da Palazzo Chigi Matteo Renzi non solo perderà tutti i privilegi riservati al presidente del Consiglio, ma anche lo stipendio, nel senso che non ne avrà più uno. Finora, da premier, Renzi ha ricevuto l'indennità prevista per chi ricopre incarichi di governo senza essere un parlamentare, equiparata dalla legge a quella di un deputato «al netto degli oneri previdenziali e assistenziali» e senza gli altri extra concessi agli onorevoli. Perciò lo stipendio di Renzi come presidente del Consiglio è stato finora di 114.797 euro l'anno (inferiore a quello di Virginia Raggi, sindaco di Roma, grillina eppure più pagata del premier: 117mila euro il suo compenso al Campidoglio, circa 10mila euro mensili).

Finora però non era mai capitato che un premier dimissionario non fosse anche parlamentare (Mario Monti addirittura a vita), e neppure è mai successo che il leader del Pd non fosse anche un deputato (Veltroni, Franceschini, Bersani e Epifani erano tutti onorevoli). In breve, Renzi si ritroverà senza più l'indennità di primo ministro, senza quella da parlamentare visto che non lo è, senza più quella di sindaco che aveva ancora da segretario Pd a fine 2013, e senza un compenso per l'unica carica che gli resterebbe, quella appunto di leader del Partito Democratico. È lui stesso a mettere nero su bianco, nelle dichiarazioni patrimoniali obbligatorie per i membri dell'esecutivo, che «il sottoscritto Matteo Renzi dichiara di avere la carica di segretario presso il Partito Democratico e di non percepire alcun compenso per tale incarico».

Ma quindi, nei mesi che passeranno prima delle prossime elezioni politiche (magari nel 2018), Matteo Renzi si ritroverà con un reddito pari a zero, a carico della moglie Agnese insegnante di scuola pubblica? Al momento la situazione sembra questa. Almeno che Renzi non chieda al Pd una retribuzione come segretario di partito, oltre ai rimborsi spese già previsti. Sarebbe la prima volta, ma le regole statutarie del Pd non lo escludono, visto che il partito paga già stipendi a dipendenti e staff. Certo, «non sarebbe molto elegante da parte di Renzi» commentano dal Pd. Poco elegante forse, ma tecnicamente possibile e anche abbastanza facile da realizzare. Perché sarebbe una semplice decisione del tesoriere nazionale, che ha potere assoluto di firma. Chi è il tesoriere Pd? Un fedelissimo del «giglio magico» renziano, il fiorentino Francesco Bonifazi. Il quale non avrebbe bisogno, per assegnare un compenso al suo segretario di partito, del via libera di alcun organo di partito, a parte informare il comitato di tesoreria, che peraltro è composto da renziani. Difficile insomma che un'eventuale richiesta da parte del «disoccupato» Renzi venga ignorata o bloccata dal partito.

È vero che attualmente nessun componente della segreteria nazionale è pagato dal Pd, ma è altrettanto vero che hanno tutti indennità di carica (parlamentari, sindaci, governatori come Debora Serracchiani) ad eccezione di Filippo Taddei, che non è retribuito dal Pd perché è docente universitario e dunque uno stipendio già lo ha.

Certo, a parte l'eventuale «ineleganza», c'è poi che il Pd non naviga nell'oro dopo la campagna per il Sì che ha prosciugato le casse del partito. La cifra ufficiosa è che il Pd abbia speso 3 milioni per il referendum, ma girano numeri molto più alti. In un'interrogazione parlamentare di Si si stima una spesa di 10 milioni di euro, solo il costo per i depliant inviati nelle case degli italiani «ammonterebbe ad un importo non inferiore ai 6.500.000 di euro», mentre altri 3 milioni circa sarebbero stati investiti per consulenze, produzione e diffusione di mezzi di propaganda. Il budget per uno stipendio a Renzi in ogni caso non si farebbe fatica a trovarlo, sempre che il premier dimissionario non faccia il beau geste di lavorare gratis. L'alternativa, cioè farsi assumere dall'azienda di famiglia, la Eventi6 Srl di Rignano sull'Arno, di cui è stato dirigente in aspettativa, sembra da escludere. La società ha come clienti grossi gruppi editoriali (Repubblica, La Nazione, Leggo etc), una condizione di conflitto non molto elegante per il segretario del Pd.

Più semplice bussare al partito.

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