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Renzi sfida ancora Bankitalia per far dimenticare la Sicilia

Il segretario del Pd riapre la polemica sulla vigilanza. Ma Orlando: "Non è detto sia lui il candidato premier"

Renzi sfida ancora Bankitalia per far dimenticare la Sicilia

In campagna elettorale, scegliere bene i propri nemici è importante. E Matteo Renzi, che guarda già oltre la Sicilia alle elezioni politiche, la scelta pare averla fatta: le chiama «alte burocrazie» (che certo non stanno simpatiche quasi a nessuno), e in prima linea è ancora Bankitalia.

Il leader del Pd torna all'attacco: «Se vogliamo che qualcosa cambi davvero, le alte burocrazie di questo Paese devono smettere di buttare la croce addosso ai politici di turno e assumersi anche loro le proprie responsabilità: chi ha sbagliato, paghi. Non è populismo, è giustizia». L'obiettivo resta quella vigilanza della Banca d'Italia «che non sempre è stata all'altezza». E si conferma che la commissione d'inchiesta sulle banche diventerà una delle trincee della prossima campagna elettorale, monitorata da vicino dallo stesso Renzi.

Il segretario Pd spende parole di plauso per il candidato governatore del centrosinistra in Sicilia: «Micari ha fatto una scelta coraggiosa e ardita» e ben diversa dai toni truci della contesa siciliana: «Non risse, non polemiche, ma una campagna molto sobria, 'una sfida gentile' come l'ha definita. Spero che questo tono e questo stile siano apprezzati», conclude. Ma di certo non si fa illusioni sulla sconfitta assai probabile. Le incognite sono solo due: chi prenderà più voti tra Micari e Fava, il candidato che D'Alema e Bersani hanno messo in campo per togliere voti al centrosinistra e farlo perdere. E se Grillo otterrà o no una vittoria che darebbe la spinta al suo partito in vista delle politiche. Ipotesi che, al Nazareno, è considerata peggiore di una vittoria del centrodestra. Per il resto, il test siciliano non viene considerato di particolare interesse in casa renziana: in Sicilia, il Pd e il centrosinistra sono sempre andati assai male. Persino nelle regionali del 2012, quando per il rotto della cuffia Crocetta diventò governatore (grazie alla divisione del centrodestra), il Pd di Bersani incassò solo un misero 13%. E negli anni non ci si è mai allontanati molto da quelle cifre.

Sono numeri e dati che Matteo Renzi si prepara a sventolare sotto il naso dei suoi critici interni, quando tenteranno all'indomani del voto siciliano di metterlo sotto assedio. Non a caso ha già programmato il match tv con il grillino Di Maio all'indomani dell'esito elettorale: come a dire che a sfidare gli altri aspiranti premier sarà lui, e non altri. Ma qualche avvertimento già arriva: ieri il ministro Andrea Orlando, capo della sinistra interna, ha fatto sapere che «dopo le elezioni in Sicilia, qualunque sia l'esito, bisognerà discutere sul perimetro della coalizione di centrosinistra e anche sul candidato premier: ci si mette intorno a un tavolo e si discute».

In realtà, visto che con la nuova legge elettorale firmata ieri da Mattarella il candidato premier non esiste se non virtualmente (e dunque fare delle primarie di coalizione non avrebbe molto senso), il vero obiettivo della fronda interna al Pd è un altro: usare il risultato siciliano per mettere sotto pressione il segretario sulle future liste elettorali. Si minacciano sfracelli interni (c'è già chi avverte che la solida maggioranza di Renzi negli organismi di partito potrebbe cambiare) per costringere il leader ad una scelta condivisa dei candidati. Ma un golpe interno contro Renzi a pochi mesi dalle elezioni politiche sarebbe suicida innanzitutto per i golpisti. Come ammette lo stesso Orlando, «non si vince soltanto con Renzi.

Ma non si vince neanche senza Renzi».

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