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Resa di Bersani sul Senato: spunta il lodo che salva il Pd

Finocchiaro e Boschi sembrano avere trovato l'intesa con la minoranza sul testo di Tonini. Il listino dei consiglieri regionali promossi a Palazzo Madama nel comma 5 dell'articolo 2

Resa di Bersani sul Senato: spunta il lodo che salva il Pd

Tutti si mostrano ancora prudenti, ma è chiaro che dietro l'aula di Palazzo Madama, semivuota durante il dibattito generale sulla riforma, si lavora alacremente a un «lodo» che consenta di mettere in sicurezza il ddl Boschi nei tempi previsti da Matteo Renzi.

«Le tecnicalità non mi interessano, se la soluzione sta giuridicamente in piedi e rispetta tutti i cardini della nostra riforma fate pure», è stato il mandato che il premier ha consegnato ai suoi, quando lo hanno informato che la minoranza Pd era interessata a trovare una via d'uscita. E a microfoni aperti, ieri sera, annuncia soddisfatto: «I numeri ci sono, lavoriamo fino alla fine per coinvolgere più senatori possibili». E così giovedì sera c'è stata l'offerta di disponibilità a un compromesso, e ieri si è aperto un tavolo di lavoro riservato per mettere nero su bianco la possibile soluzione. Da una parte Maria Elena Boschi e Anna Finocchiaro, le due donne che pilotano, per conto di Renzi, il naviglio della riforma; dall'altra Vannino Chiti e Maurizio Migliavacca, alfieri del niet alla riforma, ora in via di ammorbidimento. La presenza di Migliavacca, bersaniano doc, viene giudicata assai significativa. Sul tavolo, il cosiddetto «lodo Tonini», proposto dal senatore renziano: infilare con una «operazione chirurgica» il cosiddetto «listino» dei consiglieri regionali che faranno anche i senatori nel comma 5 del famigerato articolo 2. Una soluzione che salverebbe la faccia a tutti: la minoranza Pd accetterebbe il principio che i senatori sono selezionati tra i consiglieri regionali ma potrebbe gloriarsi di aver convinto Renzi a toccare l'articolo 2, e Renzi porterebbe a casa la sua riforma così come la voleva e senza scardinare l'articolo 2, visto che il comma 5 (a causa di una proposizione cambiata) va comunque rivotato. E per il presidente Grasso diventerebbe ancora più complicato dichiarare ammissibili gli emendamenti sull'elettività del Senato. Grasso continua a trincerarsi dietro il segreto di Stato sulla sua futura decisione, come se gli chiedessero di aprire fuori onda la busta col nome del vincitore della Notte degli Oscar. Ma ieri ha fatto sapere di essere «felice che siano ripresi i contatti per una mediazione» e «fiducioso» che porti a «una intesa in zona Cesarini». E la solitamente prudente Finocchiaro si dice convinta che il Pd «sia in grado di applicare al dibattito interno il principio di razionalità politica e giungere a una decisione comune». Pier Luigi Bersani fa ancora la voce grossa, dice che «ambiguità, tatticismo e giochi di parole potrebbero solo aggravare una situazione già complicata», ma apre a una soluzione «sia pur chirurgica».

Da giorni i renziani assicuravano che nella minoranza Pd fosse in corso un sommovimento, man mano che il redde rationem si avvicinava, e che l'ala oltranzista perdeva pezzi, con personaggi del calibro di Gianni Cuperlo che prendevano le distanze dall'ala dura. «Si sono resi conto che si erano infilati in un vicolo cieco, con la loro opposizione frontale alla riforma, che li avrebbe costretti a votare contro il governo del Pd: per la base del Pd sarebbero diventati i nuovi Bertinotti, si sarebbero messi fuori dal partito. E poi cosa facevano, i comitati del No al referendum confermativo?», ragiona un alto dirigente parlamentare del Pd. Annusata l'aria e incassato l'ampio risultato dei primi voti sulla riforma, la Boschi ha offerto il ramoscello d'ulivo del comma 5 e un pezzo della minoranza ci si è aggrappato. I duri combattono ancora: «Ma quale offerta, è uno sberleffo», tuona Corradino Mineo.

Ma rischia di restare come il proverbiale giapponese nella giungla.

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