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La «rivoluzione» dell'esecutivo gialloverde: i vice che danno ordini ai propri capi

Non solo premier ed Economia: anche Cultura e Trasporti sono "commissariati"

La «rivoluzione» dell'esecutivo gialloverde: i vice che danno ordini ai propri capi

Chi vince fa il vice e chi si adatta fa il capo. Si è ribaltata l'arte del comando. In questo governo di vicepremier, di viceministri, di sottosegretari, sono loro a ordinare e i superiori a obbedire. Non c'è solo Giuseppe Conte che ogni giorno, ai cronisti, ricorda di essere premier anche se ormai prende ordini da Matteo Salvini.

Il ministro dell'Economia, Giovanni Tria ha denunciato il sabotaggio della viceministra Laura Castelli che ha diffuso la bozza della lettera alla Ue e ci è mancato poco lo costringesse alle dimissioni. Sottomesso ai suoi capricci, Tria ha chiaramente detto che il testo non doveva finire nelle mani della sua vice: «Non lo doveva avere. Era un documento riservato». E dunque è ministro Tria che non riesce a custodire i suoi segreti o è ministro la Castelli che riesce a entrarne in possesso?

Sin dall'inizio di quest'avventura di governo, l'Italia ha infatti sperimentato una specialissima e nuova formula di controllo ed esercizio del potere, ma è oggi, a distanza di un anno, che quel capovolgimento si è fatto regola. Ai festeggiamenti per il 2 giugno, Salvini era naturalmente omaggiato da premier e tra i suoi uomini è risaputo che Giancarlo Giorgetti - che è il vice di Salvini - è ritenuto la vera guida della Lega. C'è un vice per ogni ministero che amministra per conto del titolare. Al ministero dei Trasporti, solo la magistratura è riuscita a dimissionare Armando Siri ed Edoardo Rixi, entrambi viceministri che si muovevano (e continuano) da ministri mentre Danilo Toninelli faceva il vice di sé stesso.

Dirigetevi al ministero degli Esteri e scoprireste che Enzo Moavero Milanesi, unico che dovrebbe parlare, non fa altro che tacere e che invece i due sottosegretari straparlano e si contendono la sua poltrona. Manlio Di Stefano ha accusato Salvini di fare «il paraculo». Il suo collega, il leghista Guglielmo Picchi, ha risposto che è invece il M5s «che fa il paraculo» per aprire la crisi di governo. Tutti e due girano il mondo per conto dell'Italia ma uno (Di Stefano) propaganda le ragioni del despota venezuelano Maduro, l'altro (Picchi) quelle di Guaidó.

E chi è più ministro della Difesa? Il sottosegretario con il mitra, Angelo Tofalo, che ha compreso il disagio dei militari o la ministra Elisabetta Trenta che li ha scontentati e che in aula saluta come una beat pacifista? Tofalo ha difeso la ragion di governo («Ho cercato di starle accanto e di spiegarle che il nemico non è Salvini. È consigliata male»). Il ministro ha invece dedicato la festa della Repubblica all'inclusione. E finora l'unico vero editto emanato non è quello di Salvini contro Fabio Fazio o Gad Lerner, ma quello del sottosegretario all'Editoria, Vito Crimi, il castigatore a onde medie, che ha stracciato la convenzione con Radio Radicale. Tra gli inconoscibili c'è anche il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, che ha come vice la temeraria Lucia Borgonzoni, una che, a cinquecento anni dalla morte di Leonardo, ha riaperto la disputa con la Francia. Da sottosegretario alla Cultura si è rifiutata di autorizzare il prestito di opere al Louvre. Ridateci la Gioconda!

Non è quindi più vero, come pensava Leo Longanesi, che «è meglio assumere un sottosegretariato che una responsabilità». Il miglior modo per non averla, oggi, è fare finta di assumerla.

Vice-comandare è meglio di comandare.

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