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"Roma è persa. Salvini? Ci sarò anche dopo di lui"

Il Senatùr: "Nella Capitale si sono tagliati le p... Milano partita decisiva per il centrodestra"

"Roma è persa. Salvini? Ci sarò anche dopo di lui"

Roma - «Adesso c'è Salvini, è vero. Chi ci sarà anche dopo, però, sono io...». Non è certo una frase che dice tutto d'un fiato Umberto Bossi. Anzi, tra una boccata di sigaro e molti amarcord, quasi gliela cavano a forza i deputati del Pd Paolo Rossi e Francesco Prina. Perché se a chiedergli un giudizio sulla Lega 2.0 è un giornalista, il Senatùr ci tiene a seguire il linguaggio della diplomazia. Per dirla come Bossi, fa il «democristianone». Nessun affondo, insomma, al segretario del Carroccio, nonostante non sia un mistero che l'attuale dirigenza della Lega consideri ormai il Senatùr troppo ingombrante e poco utile alla nuova causa. Dai piani alti di via Bellerio, per dire, il giorno del suo compleanno fu chiesto a deputati e senatori di astenersi dagli auguri sui social, Facebook su tutti. Invito disatteso, perché a tutto c'è un limite. Tutte cose di cui Bossi non si cura, almeno pubblicamente. D'altra parte, «dopo la malattia è diventato più saggio», osserva Rossi, varesino doc, uno che il Senatùr lo conosce da quando alla fine degli anni Ottanta gli allora protoleghisti scaricarono una carriola di letame davanti alla sezione cittadina della Dc.

Come finisce la telenovela di Roma? Bertolaso, Meloni o Marchini?

«Non cambia. Finirà comunque male. Ci sono stati troppi errori e troppe ripicche. Si sono tagliati le palle da soli e quando ne combini così tante non ti riprendi più».

Berlusconi la pensa come lei?

«Non lo so».

In realtà lo sa bene, perché i due si sono visti a cena ad Arcore una decina di giorni fa. Bossi, però, sceglie la discrezione. Come sulla cena con Giulio Tremonti mercoledì scorso a Roma o sul brindisi al gruppo parlamentare per i 32 anni dalla fondazione della Lega (era il 12 aprile 1984) a cui ha partecipato pure Pier Luigi Bersani.

Il Cavaliere le avrà pur detto qualcosa su Salvini...

«Guardi, io proteggo le persone che stimo. E Berlusconi pur avendo fatto degli errori è un uomo dal cuore grande, è per questo che lo stimo».

E della candidatura di Irene Pivetti come capolista di Noi con Salvini a Roma cosa ne pensa? Nel '94 l'ha portata alla presidenza della Camera eppure non ha avuto parole affettuose nei suoi confronti.

Il gesto della mano a scansare via è eloquente. «È sempre stata così e certe persone non è che cambiano. Ma non è vero che avevo torto sulla Padania visto che la questione settentrionale è ancora oggi attualissima».

Eppure la Lega oggi vuole essere partito a vocazione nazionale. Che ne pensa della lista Noi con Salvini?

«Che la Lega è una sola. Che non si deve approcciare al Sud pensando sia un serbatoio di voti ma proponendo una giusta politica di sviluppo industriale. Così da evitare che sia il Nord a farsi carico delle tasse del Sud. Dei 100 miliardi annui di residuo fiscale la sola Lombardia ne deve pagare 60».

Capitolo Milano. Scommetterebbe sulla vittoria di Parisi?

«È la partita decisiva. E credo ce la possa fare. E sarebbe una vittoria da cui il centrodestra potrebbe ripartire nonostante il disastro combinato a Roma».

Un'altra boccata di mezzo Toscano e Ignazio La Russa che passa e lo saluta. Si avvicinano anche i deputati dem Rossi e Prina e qualcuno ricorda l'incontro tra Bossi e Giovanni Paolo II, quando nel 2002 il Papa venne a Montecitorio. «Gli dissi: Santità, siamo in due a essere stranieri sul suolo di Roma. Lei polacco e io padano. E lui sorrise». Se lo ricorda bene anche l'onnipresente Nicoletta Maggi, ombra del Capo ormai dal '94.

E di Papa Francesco cosa ne pensa?

«È un Papa innovatore, per molti versi rivoluzionario. Dice cose sagge, anche se a volte irrealizzabili come per esempio sull'immigrazione. Ma fa il Papa e forse è anche giusto così».

A riportarlo all'amarcord ci pensa Rossi. Prima nella Dc, oggi nel Pd è politicamente lontano anni luce dal Senatur. Ma la Lega, ammette, «è stata un'intuizione geniale». Quella di allora, perché oggi «si è buttata su un segmento elettorale preciso, quello della destra lepenista». Bossi annuisce. «Né di destra, né di sinistra, noi siamo in alto», ricorda il vecchio motto. Che poi oggi è diventata la parole d'ordine dei Cinque Stelle. «Abbiamo perso la vocazione autonomista», ammette il Senatur. «Ma a noi s'inserisce Prina - va bene così. Finché c'è Salvini con i suoi eccessi populisti il Pd non rischia». «Adesso c'è Salvini, è vero.

Chi ci sarà anche dopo, però, sono io», chiosa Bossi.

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