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"A Scalfari diedi 80 miliardi" "Repubblica" litiga sui soldi

De Benedetti replica a Barbapapà: «Con le fedi salvai il giornale, comprai a caro prezzo la quota di Eugenio»

"A Scalfari diedi 80 miliardi" "Repubblica" litiga sui soldi

La baruffa tra l'ingegner Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari si è arricchita ieri di un nuovo capitolo. E, come tutte le liti tra ex innamorati, lascia trasparire gli episodi meno edificanti di una relazione anche se si fa di tutto per tenerli nascosti. Infatti, ieri la precisazione del presidente onorario del gruppo Gedi era celata a pagina 27 del quotidiano. «Scalfari ha completamente omesso un passaggio cruciale:a metà degli anni '80 il gruppo Espresso si trovava in una situazione tecnica di fallimento», scrive l'Ingegnere ricordando che il legale della società, l'avvocato Vittorio Ripa di Meana, si rivolse al dottor Guido Roberto Vitale, allora ad di Euromobiliare, per «cercare una soluzione». Secondo De Benedetti, il dottor Vitale, con un suo collaboratore, «si inventò uno strumento molto in disuso nella finanza italiana e cioè le fedi di investimento convertibili e mi propose di sottoscriverne 5 miliardi, cosa che io feci».

Una ricostruzione, anche questa, parziale. Il bilancio del 1981 del gruppo Espresso si chiuse con debiti per circa 10,5 miliardi di vecchie lire. La società, presieduta dal principe Carlo Caracciolo e guidata da Scalfari, aveva bisogno di un aumento di capitale da circa 5 miliardi. Anziché alla Borsa (Espresso era quotata) si ricorse alla finanza. Da una parte ci si rivolse alla Rigim (acronimo di Riunione generale italiana di mobilizzazione spa), che faceva capo al finanziere bolognese Umberto Li Causi e nel cui consiglio sedeva l'Ingegnere, che erogò 4,3 miliardi attraverso le «fedi». Erano strumenti paragonabili a un'obbligazione convertibile (il rapporto era 16 fedi per una nuova azione Espresso), solo che a emetterli era un terzo e non la società bisognosa di risorse fresche. Inoltre l'Espresso cedette il 50% della Manzoni, la concessionaria della pubblicità, a una controllata dell'editoriale Mondadori (allora di proprietà dell'omonima famiglia) che girò questo pacchetto alla Olivetti dell'Ingegnere.

«Successivamente convertii le fedi in azioni del gruppo Espresso, diventandone azionista al 15% ed entrai nel consiglio di amministrazione, del quale per trentacinque anni sono stato membro», ha sottolineato ieri De Benedetti. Anche questa affermazione è parzialmente incompleta. Le fedi di investimento, secondo fonti vicine all'operazione, furono utilizzate come pegno per un finanziamento della Banca commerciale italiana, che risulterebbe essere stata la vera titolare delle fedi, circostanza non dimostrabile visto che si trattava di titoli al portatore.

Particolare non di poco conto è che i 4,3 miliardi di finanziamento furono liberati il 2 febbraio 1982, undici giorni dopo che l'Ingegnere fu liquidato cash dall'Ambrosiano di Roberto Calvi con 82 miliardi di lire a fronte di un investimento di 50 miliardi per il 2% durato meno di due mesi, gli stessi della sua vicepresidenza a fianco del «banchiere di Dio». Circostanza per la quale De Benedetti sarà condannato per bancarotta e «miracolato» dalla Cassazione con un annullamento senza rinvio. Tra parentesi, anche Li Causi e i vertici di Rigim furono processati e assolti per frode fiscale. Proprio un attimo dopo l'uscita dell'Ing.

De Benedetti non ha mancato di ricordare che «in occasione della guerra di Segrate (su Mondadori) Scalfari ne approfittò per vendere la sua modesta partecipazione e io gliela comperai versandogli 80 miliardi di lire».

Insomma, gli elaboratori di «una certa idea dell'Italia» avevano anche una certa idea del portafoglio, molto più prosaica.

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