Magistratura

Lo scandalo autoassoluzioni

Che odore di chiuso, di stanza poco areata, di fiati che respirano altri fiati. Con rispetto parlando, è questa la sensazione che viene rileggendo la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione che ha graziato il giudice Roberto Amerio

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Che odore di chiuso, di stanza poco areata, di fiati che respirano altri fiati. Con rispetto parlando, è questa la sensazione che viene rileggendo la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione che ha graziato il giudice Roberto Amerio. Amerio è il giudice di Asti che quattro anni fa condannò un uomo prima ancora che i suoi difensori prendessero la parola. Si presentò in aula con la sentenza già scritta, si alzò in piedi insieme alle sue colleghe a latere e rifilò undici anni di carcere all'imputato. Si era dimenticato che l'udienza era fissata proprio per dare la parola ai difensori. La sentenza l'aveva scritta a casa, o in ufficio, solo sulla base della requisitoria del pubblico ministero. Gli avvocati, arrivati in aula per pronunciare le loro arringhe, rimasero di sasso, poi insorsero. Quando il giudice si rese conto del gigantesco pasticcio, strappò precipitosamente il foglio della sentenza. Amerio e le sue colleghe si spogliarono del processo. Davanti alla enormità della cosa, fu inevitabile che tutti e tre i giudici finissero sotto procedimento penale e disciplinare. Ora tutto a finisce a tarallucci e vino, grazie all'azione congiunta di tre soggetti: la Procura di Milano, il Consiglio superiore della magistratura, le Sezioni Unite della Cassazione, compatti nella volontà di dimostrare al cittadino medio quel che forse egli già sospetta: che il nobile sistema elaborato dalla Costituzione, per cui a giudicare i giudici sono altri giudici, stessa toga, stesso concorso, magari stessa corrente, è divenuto una micidiale macchina di autoassoluzione permanente, in cui brutture che costerebbero a un cittadino la libertà o almeno la carriera diventano marachelle. Tutto si giustifica, cane non mangia cane. Provi un cittadino qualunque, magari imputato, a strappare la sentenza che lo ha appena condannato. Invece Amerio e le due a latere, Giulia Bertolino e Beconi, spiegano che quella non era una sentenza ma un appunto di lavoro, un promemoria. Peccato che cominciasse con la formula «Repubblica Italiana, in nome del popolo italiano»: i tre finiscono indagati a Milano per distruzione di atto pubblico, e incredibilmente vengono prosciolti in istruttoria, «fatto privo di dolo». Non sapevano che quella era una sentenza, forse non sapevano nemmeno che quello era un processo. Arriva il Csm, che proscioglie le due giudici a latere: anche se erano rimaste lì impettite, come se nulla fosse, mentre Amerio pronunciava la sentenza impossibile. «Non potevamo mica strappargliela di mano», si difesero: che invece era ciò che dovevano fare. A Amerio il Csm invece rifila la condanna più blanda possibile, una censura, appena sopra il minimo della pena. Ora la Cassazione cancella anche quella, Per la Cassazione il Csm non ha considerato che il giudice era «stressato» dai carichi di lavoro. Lo stress non assolve i poliziotti, i medici, i camionisti che sbagliano nel loro mestiere.

Ma i giudici sì.

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